Cultura

Imparare a cucinare buone relazioni con la serie tv “The Bear”

Ci fa bene guardare serie TV? E fa bene ai cattolici guardare serie TV? Prendiamone una recente, “The bear”, disponibile su Disney+. La trama è abbastanza semplice. Carmy, Carmen Anthony Berzatto, è un celebre chef. Torna nella sua città natale, Chicago, dopo la morte (per suicidio) del fratello Michael, il quale gli ha lasciato in “eredità” il locale di famiglia: “The Original Beef of Chicagoland”, un locale specializzato in panini. Carmy cercherà di cambiare le cose nella gestione del locale e di farlo diventare un posto migliore. Nel tentativo di “aggiustare le cose”, però, dovrà fare i conti con la sua famiglia, con la tossicità dell’ambiente e delle relazioni, con se stesso e i suoi fantasmi.

Come una serie del genere può farci bene?

1) Perché riesce a parlare di relazioni e di relazioni tossiche, conflittuali, disfunzionali (anche e soprattutto a livello familiare, quotidiano, lavorativo). Il rischio, anche nei nostri ambienti ecclesiali e pastorali, è avere una visione troppo semplice e semplificata delle relazioni, priva delle conflittualità e della complessità. L’ansia e la fatica che ci tramette “The bear”, soprattutto nella schizofrenia del micro-ambiente della cucina, sono invece quasi terapeutiche.

2) Perché riesce a parlare di sistema e di cambiamento. Carmy si imbatte nelle resistenze al cambiamento dello staff del ristorante. Il ritornello è: non ci rovinare il sistema, abbiamo sempre fatto così. Anche a proposito di cambiamento c’è spesso tanta retorica in giro: se ne parla tanto, ma si agisce poco. Oppure si finisce per rendere ragione della massima gattopardesca: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

3) Perché parla del tempo e del tempo che passa e della preziosità del tempo. La frase “Ogni secondo conta” (“Every second counts”), insieme alle inquadrature di orologi e di calendari, è una costante della serie. Non è però questione puramente economica (il tempo è denaro), ma squisitamente esistenziale: dare sapore al tempo e gustare la vita; lasciarsi purificare dal fuoco della vita e sapersi riconciliare con se stessi e con gli altri. Si potrebbero fare riferimenti colti (citare “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust e la celebre madeleine) o riferimenti anche più pop (il critico Ego nel film d’animazione della Pixar “Ratatouille”).

4) Perché, infine, parla della fatica di volersi bene. Nella puntata più lunga e più drammatica (l’episodio centrale della seconda stagione intitolato “Pesci”) viene raccontata una cena di Natale dove l’instabile madre di Carmy, Donna, ha preparato un cenone “sacramentale” a base di sette pesci (secondo una presunta tradizione italo-americana). Mentre sono tutti attorno alla mensa, in una tensione sospesa tra ostilità e devozione, è proprio Donna a esplodere quando la figlia Natalie le chiede per l’ennesima volta se sta bene. Tra le cose che Donna grida c’è anche una domanda: “Vuoi sapere se sto bene? Vuoi sapere se sto bene? E voi … state bene?”. È una bella domanda. Negli episodi che seguono e che chiudono la seconda stagione, sembrano schiudersi dei tentativi di risposta. E soprattutto sembra evidenziarsi la cosa più difficile: essere capaci di volere bene a stessi, di sentirsi al proprio posto, di stare bene con l’abito che indossiamo, di accettarsi per come siamo, di star bene nel voler bene a qualcuno. Non per niente l’unica cosa che Michael scrive come “testamento” a Carmy è una iconica frase che ritorna spesso: “Ti voglio bene. Lasciati andare” (“I love you, dude. Let it rip”).

Le buone serie TV possono farci bene (e farci bene anche nel nostro essere cattolici), così come ci fa bene la buona letteratura e il buon cinema e il buon cibo. Ci fanno bene nel momento in cui ci portano fuori da noi stessi e ci fanno vedere la complessità della realtà, senza tentare di ridurla o risolverla.

Simone Zonato