«Le giovani donne si trovano oggi in condizioni difficili nell’immaginare il futuro in un presente lacerato da troppi squilibri. Allo stesso tempo, questi venti di guerra, di competizione senza scrupoli e di dominio scriteriato sulla natura producono un’incertezza esistenziale senza precedenti. Non è detto, dunque, che la maternità sia per loro un desiderio avvertito con intensità». L’analisi della filosofa e teologa veronese Lucia Vantini, 52 anni, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, sembra stendere un velo di amarezza sulla festa della mamma che ricorre questa domenica. Tuttavia, l’affermazione è confermata da un dato contenuto nel recente (è uscito a fine aprile) “Rapporto giovani” curato dall’Istituto Toniolo: “la preoccupazione per la salute del pianeta spinge i giovani tra i 25 e i 34 anni a fare meno figli per il timore di vederli condannati ad un futuro potenzialmente catastrofico”. Una tendenza che cresce nei Paesi che investono meno risorse pubbliche sulle nuove generazioni e in politiche familiari.
«In quale modo questa società immagina e sostiene la vita che nasce?» si domanda la teologa, a sua volta madre di tre figli, per poi aggiungere: «Chiederselo aprirebbe tante riflessioni, anzitutto su questa strana cultura che da un lato si preoccupa del calo delle nascite e dall’altro respinge le vite migranti, da un lato parla di civiltà e dall’altro rimuove il problema della vulnerabilità, lasciando senza sostegno coloro che si prendono cura di figlie e figli disabili o con patologie psichiatriche».
Quindi, secondo lei, ci sono mamme che ci dimentichiamo di festeggiare?
«Sì, ci sono madri che dimentichiamo e che addirittura rimuoviamo. Tendiamo infatti a festeggiare solo un certo tipo di madre: quella che ha un uomo accanto, quella che lavora in modo dignitoso, ma sa anche fare le torte, quella che si sacrifica volontariamente per il bene della famiglia o per Dio, quella che viene dalle nostre terre, quella che è già adulta ma non troppo, quella che non ha mai pensato – nemmeno per un momento – di interrompere una gravidanza, quella che non conosce la strada, il carcere, la violenza o la paura di non farcela».
Quali sono, secondo lei, gli stereotipi che andrebbero con urgenza superati, sul piano culturale, sociale ed ecclesiale?
«Ogni festa porta con sé un immaginario e quella dedicata alla mamma non fa eccezione. Tuttavia, come dicevo prima, tendiamo a chiudere il discorso in stereotipi che cancellano la realtà nella sua complessità. In questo senso, ogni idealizzazione dell’elemento materno condanna le madri vere – divenute tali per desiderio, per caso o per violenza – a non poter raccontare la propria storia, la propria versione del mondo, la propria speranza di giustizia. Sul piano ecclesiale, papa Francesco ha coniato un nuovo verbo: “smaschilizzare”. Voleva dire che dobbiamo imparare a sognare e a realizzare una Chiesa dove le donne e gli uomini siano corresponsabili e pienamente soggetti, insieme, nel loro battesimo».
La figura di Maria, visto che siamo nel mese di maggio, aiuta a superare questi stereotipi o li rafforza?
«Dipende da come la presentiamo, da come la celebriamo e da come usiamo i simboli che la madre di Gesù – madre di Dio per i cristiani – produce. Le teologie femministe, per esempio, hanno denunciato tutti gli usi scorretti di questi simboli, affermando che nella storia la figura di Maria è stata spesso usata come una clava per le donne. Allo stesso tempo, non nego che con Maria siamo di fronte a una potenza simbolica della generatività che, se maneggiata con cura, riesce ad aprire un varco di libertà in certi discorsi abitudinari tutti declinati al maschile».
A proposito di questo, ha fatto scalpore una puntata di Porta a porta dedicata all’aborto con soli uomini in trasmissione.
«Da sempre lo spazio pubblico è stato interpretato come maschile, con la conseguente rappresentazione della donna come soggetto che dà il meglio di sé nello spazio della casa e delle relazioni di cura. Certi uomini si sono abituati a prendere la parola anche su esperienze che non sperimentano in prima persona e a presentarsi come controllori del corpo femminile, un corpo che sa ospitare la vita e mettere al mondo parole e gesti che si nutrono di quella potenza generativa».
Ma secondo lei, nella società di oggi, la maternità è un peso o una risorsa?
«In questo scenario, la maternità in sé non è né un peso né una risorsa, nel senso che tutto dipende dai desideri, dalle condizioni psicologiche, sociali e materiali di una donna, dall’ospitalità delle comunità in cui una vita viene al mondo, dalle leggi che ci diamo. Io sono colpita dalle madri che trovano il coraggio di attraversare il mare, ma sono colpita anche da quelle che restano dove sono e lasciano andare i loro bambini e le loro bambine. Mi costringono a domande difficili sul tipo di speranza che ogni essere umano può permettersi: certe persone non possono permettersi di sperare quello che speriamo noi. Le loro sono speranze arrischiate che prevedono dure separazioni alle quali noi facciamo caso distrattamente o sulle quali ci soffermiamo solo per dare giudizi spietati. Quelle storie ci insegnano da un lato che amare è lasciare andare, ma con il loro grido ci insegnano soprattutto ad aprire gli occhi sull’iniquità del nostro mondo».
Andrea Frison