Missioni

Dino e Silvano Ruaro. Missionari vicentini nel Congo senza pace

Una famiglia di profughi giunta a Mambasa (foto di padre Dion Ruaro).
di Andrea Frison

Percorrono anche novanta chilometri a piedi o su mezzi di fortuna, dormono da amici e conoscenti o, più spesso, in luoghi pubblici come scuole e chiese. Sono i profughi che in queste settimane hanno raggiunto la parrocchia di Mambasa, nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, dove vive il missionario vicentino Dino Ruaro, padre Dehoniano originario di Magrè, a Schio.

Raggiungiamo il missionario a pochi giorni dalla partenza del Papa per il viaggio apostolico che il 31 gennaio porterà Francesco a visitare Kinshasa, la capitale. Qui incontrerà un gruppo di profughi fuggiti dall’est del Paese. «A Mambasa di profughi ce ne sono migliaia – ci racconta padre Dino -. Fuggono dai gruppi armati che imperversano nei villaggi, uccidendo e saccheggiando. Non esistono campi profughi, ciascuno si arrangia come può, le famiglie vivono di carità o di espedienti. Come parrocchia proviamo a fare qualcosa per aiutarli, anche offrendo qualche lavoro a chi è in buona salute». Nelle ultime settimane sono aumentati gli attacchi nell’est del Paese, «ma per ora qui a Mambasa siamo abbastanza al sicuro – racconta padre Dino -. Gli attacchi più vicini di cui ho sentito parlare sono avvenuti a venti, venticinque chilometri da dove siamo noi. Io stesso mi sono allontanato di una decina di chilometri dalla mia missione per vedere com’è la situazione nei villaggi. La maggior parte sono semi abbandonati, per paura delle incursioni. Ho incontrato una famiglia che proviene da novanta chilometri di distanza, hanno trovato rifugio in sei adulti e una ventina di bambini piccoli in una casetta di fango che viene utilizzata per le attività della parrocchia».

Padre Dino è arrivato nella Repubblica Democratica del Congo nel 1973. Dal 2007 si trova a Mambasa, dove con la sua parrocchia si occupa in particolare della popolazione carceraria. Ha visto con i suoi occhi le due guerre che hanno travolto l’est del Congo e le loro conseguenze. «Da allora continuo a sentire tanti discorsi, ma c’è molta propaganda da parte di chi cerca il proprio interesse in modo spudorato e diabolico – con fessa il missionario -. Ho poca fiducia nella soluzione del conflitto, l’interesse è cieco e senza cuore».

A nord di Mambasa c’è Nduye, la missione dove è impegnato un altro Dehoniano, padre Silvano Ruaro, anche lui originario di Magrè e cugino di padre Dino. I due nei giorni scorsi si sono incrociati a Mambasa prima che Silvano tornasse a Nduye dopo essere stato a Kampala, in Uganda, e a Beni e Butembo. Lungo la strada tra queste due città a sud di Mambasa lo scorso ottobre è stata uccisa in un attacco una suora medico. Il suo corpo è stato dato alle fiamme. «Mi sono fermato nel villaggio per pregare, hanno eretto un piccolo capitello in suo ricordo – racconta padre Silvano -. La strada tra Mambasa e Beni è sempre a rischio. Non c’è una linea del fronte, gli attacchi avvengono inaspettatamente, a macchia di leopardo. Uno di questi, il 16 gennaio, è avvenuto contro la chiesa pentecostale di Kasindi, al confine con l’Uganda. «Ero stato nel villaggio il giorno prima dell’attentato – racconta il missionario -. Purtroppo queste cose sono diventate il nostro pane quotidiano. La moglie di un catechista che collabora con me è stata rapita e portata nella foresta. E quando succede, nessuno torna».

Kinshasa, la capitale, è lontana oltre tremila chilometri da Mambasa. «Per noi è impossibile andare ad incontrare il Papa – spiega padre Dino Ruaro -. Ma stiamo pregando, ogni giorno recitiamo il rosario e facciamo l’adorazione eucaristica».

Padre Dino e padre Silvano sono due dei pochissimi missionari italiani rimasti nell’est del Congo. «Vorrei che il Papa dicesse ai Vescovi di essere più coraggiosi – confida padre Silvano Ruaro -. Penso a San Leone Magno che è andato incontro ad Attila o a Santa Chiara con i saraceni. A parole ci sono vicini, ma servono gesti concreti, come organizzare un incontro nelle zone “calde”. Sono qui da 53 anni, io e gli altri missionari amiamo questo popolo, non abbiamo paura. Ma ci sentiamo soli. Ci preoccupa vedere la gente che soffre. Se il Papa potesse dire ai Vescovi di fare gesti concreti…».

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