Il giardino del Getsemani è solo in apparenza un luogo di pace. «Qui Gesù ha chiesto ai discepoli di stare con lui, di pregare con lui nel momento della lotta, prima dell’inizio della sua passione. Eppure è questo rovesciamento, questo fallimento di Gesù che permette a Dio di entrare fino in fondo nelle nostre ferite, quelle più bisognose di essere curate. Oggi noi frati facciamo in modo che questo continui ad accadere: che le persone possano venire qui a condividere la preghiera di Gesù». Fra Diego Dalla Gassa, vicentino originario di Chiampo, è il responsabile del romitaggio del Getsemani, il colle dell’Orto degli ulivi dal quale, in una decina di minuti, si raggiunge a piedi la città vecchia.
Fra Diego, che visione della Terra Santa si ha dal Getsemani in questi giorni?
« Viviamo, è già bene così, si dice da queste parti. È come essere su un’autostrada in cui si aspetta l’uscita, ma questa si allontana in uno spazio indefinito. La tregua a Gaza aveva dato la speranza che l’uscita stesse arrivando, non è stato così. All’interno del Paese c’è molto risentimento, rancore, soprattutto per chi è rimasto toccato e ferito nelle proprie famiglie».
Prima di diventare frate sei stato militare in Somalia nei primi anni ’90. Quando parli di guerra sai di cosa si tratta.
«Purtroppo sì, almeno una parte della guerra la conosco. Posso dire che l’odio chiama odio. Noi qui dovremmo essere come un cartello di pericolo che avvisa “strada senza uscita”. La guerra non conduce a vie di dialogo, ma solo di sofferenza e ha grandi conseguenze sui più deboli. È una forma di dominio».
Come vivete la vostra missione di religiosi in Terra Santa?
«Noi frati siamo chiamati a stare dalla parte di chi soffre. Bisognerebbe cambiare la direttiva, non ridurre tutto a palestinesi contro ebrei altrimenti si perde la dignità umana. E se non ti riconosco come persona, posso fare di te ciò che voglio. Ci sono persone giuste e persone ingiuste, persone ferite e persone più ferite. Nella misura in cui c’è empatia allora c’è dialogo».
Che significato assume il Getsemani in questo contesto?
«La nostra appartenenza a Cristo dovrebbe renderci più umani. Non è sempre facile, soprattutto per chi viene ingiustamente depauperato. I valori che vengono dettati dal Vangelo sono di accoglienza, rispetto, amore, non chiusura o aggressività. C’è un discorso spirituale molto profondo, la vera battaglia è tra principati e potestà, come dice San Paolo, c’è qualcosa di diabolico dietro a tutta questa sofferenza. Usare la religione e Dio per giustificare la mia idea è molto grave. Mi fa spegnere la coscienza e mi fa sentire portatore di un potere che mi spinge a fare cose che non sono di Dio».
Il Getsemani non è dunque un luogo in cui estraniarsi dal mondo, è così?
«Sì, è così. Anzi, da qui ne percepisci di più il rimbombo e il grido. Ma in questa terra c’è anche una stratificazione di storia e di promessa, che richiede rispetto e relazione. Gerusalemme è come una sposa che non si concede a chi è di fretta».
Andrea Frison
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