Il mese di ottobre inizia con la memoria di due santi particolarmente conosciuti e amati nella devozione popolare: Teresa di Lisieux e Francesco d’Assisi. Che poi è bella questa cosa che con la santità (soprattutto laddove fiorisce nella vita religiosa) i cognomi e i patronimici tendono a sparire, per cedere il posto semplicemente al luogo in cui si è vissuti, lasciando tracce luminose di Vangelo, in piena fedeltà al principio teologico dell’Incarnazione.
La fanciulla normanna, chiamata Teresina per distinguerla dall’altra imponente santa carmelitana, e il Poverello di Assisi, il giullare di Dio, il fratello universale. La prima, patrona delle missioni, pur avendo vissuto la maggior parte della sua vita tra le mura di un monastero di clausura; il secondo patrono d’Italia, pur avendo speso la prima parte della sua vita a tentare di fare il soldato al tempo delle guerre tra i comuni e la successiva a ritenersi senza patria su questa terra. Tipico, involontario o provvidenziale, a seconda dei punti di vista, humor cattolico. Perché la santità è una cosa talmente seria che porta a vivere con gioia e lievità tra gli inevitabili affanni del mondo.
Francesissima Teresina, sulla scia di un’altra pulzella normanna, l’eroica Giovanna d’Arco; “Il più santo degli italiani, il più italiano dei santi” Francesco, come lo definì Pio XII, forse rubando la felice definizione a quel neoguelfo di Vincenzo Gioberti (1801-1852). Ma che cosa hanno in comune Teresina e Francesco? L’amore per Gesù Cristo. Un amore folle che li spinse a fare cose folli. Così folli che se qualcuno le facesse oggi sarebbe ritenuto, probabilmente anche nella Chiesa, in questa nostra Chiesa così troppo spesso ragionevole e imborghesita, un pazzo di cui diffidare, una scheggia impazzita che mina il sistema.
Teresina a 14 anni, durante un pellegrinaggio diocesano a Roma, si pianta davanti al vecchio pontefice Leone XIII nel tentativo di estorcere direttamente al Papa il permesso di entrare subito in clausura, prima del raggiungimento dell’età canonica. Devono intervenire le guardie svizzere e portarla via di peso. Francesco, che già si è messo a parlare con il crocifisso di San Damiano, ha 24 anni quando in piazza ad Assisi si spoglia fisicamente di ogni suo bene materiale, sposa Madonna Povertà e trova rifugio sotto il piviale del Vescovo Guido.
Una voleva essere “la pallina nelle mani di Gesù Bambino”, l’altro il giocoliere di Dio. Santi fanciulli, anagraficamente, ma soprattutto nel cuore, perché la fanciullezza o infanzia spirituale è una delle condizioni dettate da Gesù stesso per poter avere accesso ai misteri del Regno dei Cieli. Il grande scrittore francese George Bernanos (1888-1948) scrisse: “Quella parte di mondo che possiamo ancora ritenere suscettibile di riscatto, appartiene certamente ai fanciulli, agli eroi e ai martiri”. E i santi lo sono sempre, inevitabilmente: fanciulli, per la loro semplicità e confidenza verso il Padre; eroi, perché non amano le mezze misure e i compromessi; martiri, perché testimoni di un amore più grande, sino al dono della vita. Per questo il mondo li odia e la gente li ama.
Tutti amano Francesco e Teresina, anche chi non crede, chi fatica a credere, anche chi crede di non credere più. Perché c’è in loro una purezza, una trasparenza, una gioia che riaccende la speranza e muove nelle profondità dei cuori, anche di quelli più induriti, la nostalgia dell’Assoluto e di un modo nuovo, diverso di vivere, finalmente pacificato. Ottobre, mese mariano, ecologico e missionario, risvegli in noi almeno un piccolo desiderio di santità. Così piccolo da essere grande come il mondo. Quel mondo che Teresina e Francesco abbracciarono con l’amore di Gesù.
Alessio Graziani