Sono passati dieci anni da quel 9 luglio del 2011 quando la stragrande maggioranza della popolazione del Sud Sudan, il Paese più giovane al mondo, votò a favore dell’indipendenza. Oggi, però, c’è poco da festeggiare. A fine 2013, infatti, è iniziata una guerra civile che ha provocato una situazione di fortissima tensione con centinaia di migliaia di profughi e moltissimi morti. Quasi tre anni fa è arrivato, su forte pressione internazionale, un accordo di pace traballante e incerto. La situazione del Paese è ancora attraversata da violenza e tensioni tra le diverse fazioni ed etnie. Agli inizi di giugno due operatori del Cuamm, il nutrizionista Abraham, 33 anni e l’autista Moses 35 anni, sono rimasti vittime di questi scontri. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm è volato in Sud Sudan per stare vicino alle famiglie e ai suoi operatori. Tornato lo abbiamo raggiunto al telefono. Le sue parole raccontano di una situazione molto complicata e di tensione e nello stesso tempo cercano di leggere il tutto con qualche speranza dentro a un processo difficile di costruzione di un nuovo Stato da poco indipendente.
«Il Sud Sudan – ci dice don Dante – sta cercando di fare un percorso di pacificazione. Questo significa trovare un accordo tra le diverse fazioni ed etnie. A tale proposito è ancora vivo il ricordo del pressante invito alla riconciliazione di papa Francesco dell’aprile 2019 che arrivò a inginocchiarsi davanti ai leader per supplicare la pace. Questo vuol dire tentare il dialogo tra le diverse fazioni e sostenere l’attuale governo, frutto degli accordi di pace, dove ci sono ministri che rappresentano le diverse etnie. Oggi abbiamo una situazione in cui, in alcune aree, il ministro di riferimento è della fazione opposta a quella che, fino a cinque mesi fa, ha gestito l’area. Il nuovo ministro ora deve dimostrare quanto è bravo lui e quanti errori sono stati fatti prima. Tutto questo crea tensioni di cui il Paese non ha bisogno».
In questi giorni ricordiamo i 10 anni dal referendum, anni molto sofferti. La popolazione sudsudanese aveva altre speranze all’inizio…
«Sicuramente. Io stesso le avevo. Nel 2011 c’è stato un momento di euforia che ho vissuto sulla mia pelle. Ero lì quando con il referendum il 99 per cento della popolazione ha votato a favore dell’indipendenza. Sono stati giorni di una speranza che si toccava con mano. Tre anni dopo sono uscite le prime difficoltà. Ci sono state figure non all’altezza della situazione dal punto di vista sia dell’esperienza che della capacità di governo. Sono emerse tensioni che via via si sono materializzate in scontri che poi si sono allargati fino a diventare vera e propria guerra civile. In tale situazione la povertà è aumentata. E così, oggi, dopo 10 anni, la miseria è molto più grande e si trasforma in rabbia. Questo ti porta a tirar fuori la kalashnikov e aumenta l’insicurezza. Ho l’impressione che il Paese oggi sia peggio di 10 anni fa».
Vede una comunità internazionale seriamente impegnata a trovare uno sbocco a questi problemi?
«Anche la comunità internazionale è in grave difficoltà perché le risorse sono poche, e perché se ne dai di più non sempre vengono utilizzate in modo corretto. Alla base c’è anche il problema della corruzione e la mancanza di una classe dirigente che abbia avuto il tempo di prepararsi. Oggi la comunità internazionale sta cercando di dare meno risorse, per indurli a giungere ad un accordo, con il rischio, però, di forzare troppo e che la tensione scoppi. Attualmente mi pare che la fatica sia prettamente interna e di accordo tra le varie fazioni. La speranza è che tutto questo faccia parte di un processo di costruzione del Paese, già sperimentato da altri Stati (soprattutto ex-coloniali come Mozambico, Angola e Uganda). Quando però ti ritrovi in mezzo, ti rendi conto che la gente sta facendo tanta, tanta fatica».
Lei è appena tornato. È andato in Sud Sudan per essere vicino alle famiglie?
«Sono andato per due motivi. Il primo è proprio per essere vicino alle famiglie dei nostri due operatori uccisi. Abraham aveva 4 figli, Moses 5. Ci siamo impegnati a sostenere le famiglie economicamente. I nostri operatori sono morti, potremmo dire, per eccesso di generosità. Si sapeva, infatti, che la zona era insicura. Venivano da Yirol. L’ospedale di Mapourdit aveva bisogno di pappe nutrizionali per i bambini. Il viaggio di andata da Yrol è andato bene. Non altrettanto il ritorno quando sono stati presi in mezzo allo scontro a fuoco tra clan e hanno perso la vita».
La seconda ragione del suo viaggio?
«La seconda ragione del mio viaggio è per motivare i nostri operatori. Quando capitano queste tragedie rischi di perdere il senso di quello che fai. Sono andato a dire loro che ne vale la pena proprio adesso. È come fossimo in una fase di transizione di un processo chimico che tenta di mettere assieme elementi chimici che non stanno assieme. Stanno facendo la fatica di contaminarsi l’uno con l’altro, ma è un processo che, per certi aspetti, scatena ulteriormente altre reazioni. Bisogna avere pazienza, e non perdere la speranza. E portare quegli aiuti che non arrivano se non da noi. Anche per questo non ci stanchiamo di chiedere di sostenerci in questo sforzo in aiuto di un paese dove di fatto, stiamo sostituendo il sistema sanitario nazionale che non c’è».