Don Emilio Centomo, parroco dell’Up di San Bonifacio, classe 1959, si misura con la malattia da oltre due anni. Prima l’infarto, poi il verdetto di un carcinoma (con intervento affrontato a Bologna nell’agosto 2023). Attualmente convive con tre metastasi e continua ad affrontare l’immunoterapia. Lo abbiamo incontrato per un’intervista.
Don Emilio, cosa ha provato?
«Ho provato la difficoltà, la sofferenza, lo scoraggiamento, il pianto, come tutti. Per me il dolore in quanto tale è sempre negativo. Tuttavia, la malattia va accolta, il che non significa accettata. Posso arrischiarmi a dire, allora, che la mia esperienza ha molta Grazia dentro, la mia esperienza è una grazia».
C’è qualche risvolto ulteriore?
«“Cosa mi vuole comunicare il Signore con questa malattia?”, mi chiedo. Malattia che combatto con tutte le mie forze. Tre cose mi sono detto. Prima: se non mi posso togliere il tumore, con il tumore annuncerò il Vangelo. Seconda: ho la paradossale coscienza di essere sempre più inserito nel popolo di Dio. “Era ben giusto” (Ebrei 2, 10) che, come pastore, fossi condotto a sperimentare su di me fatiche e dolori, le malattie del corpo e dell’anima, per comprendere meglio la vita della mia gente. La ricompensa più grande è essere riconosciuto degno dei racconti e delle confidenze, perché la gente sa che posso capire. Terza: la sofferenza mi ha permesso di riscoprire il valore delle emozioni, dei sentimenti, dell’amarci l’un l’altro».
Cosa ha colto rileggendo il libro di Giobbe?
«Giobbe ha parole molto forti e crude quando grida il dolore che ha dentro. Lui ci aiuta a stare nella nostra realtà umana senza subito spiritualizzare ciò che ci capita. La fedeltà all’umano è la prima forma di fedeltà. Giobbe impara quindi a chiudere la bocca davanti a Dio e in quel silenzio pronuncia il suo “sì”».
È cambiato il modo personale di pregare?
«Nei momenti difficili, come per Giobbe, la preghiera è un grido di dolore. Poi diventa un ringraziamento, perché la mia vita è stata per tanti motivi un grande dono. Nella malattia si sperimenta che la vita può essere breve, che occorre viverla in pienezza e renderla vera. Importante è gioire di ogni momento. Questo fa crescere un animo riconoscente verso gli altri e verso Dio. La mia preghiera è quella di Eleonora Giorgi, recentemente scomparsa: “Non chiedo più giorni alla mia vita, ma più vita ai miei giorni”».
Anche il Papa sta attraversando la fragilità e la debolezza. Cosa significa restare al proprio posto come parroco e in tale situazione?
«Ringrazio don Ismaele e don Davide per il lavoro che stanno facendo: si sono caricati molti impegni, perché hanno dovuto sostituirmi per mesi e mesi, visto che le mie energie sono limitate. Mi sono accorto che la malattia mi ha avvicinato alla gente molto più di prima. Non contano le attività, le organizzazioni, le cose da fare. Conta essere pastore che guida mediante la prossimità e la testimonianza».
Cosa avverte in questo tempo?
«In questo tempo ho spesso una sensazione di pienezza, di appagamento. Negli ultimi mesi, non ho più avuto momenti di depressione. Mi alzo di buon umore e sperimento ogni giorno la bellezza della vita, la libertà sconfinata dell’amore. Ricevo molto affetto e molta stima. Le persone che non conosco mi fermano per strada per dirmi che pregano per me. Le persone mi abbracciano senza paura. Vengo apprezzato perché le mie omelie parlano della vita e riesco a entrare nel cuore di chi ascolta. Il tumore mi ha fermato, mi ha costretto a recuperare le relazioni. La vita mia forse non sarà lunga, ma è assai larga, piena di calore e gioia. Ho tanti amici che vengono continua mente a trovarmi. Sento ora di poter gustare la vita senza troppi legacci razionali».
C’è qualcosa che desidera in particolare?
«Vivere è abbastanza. Mi piacerebbe guarire, ma so che questa è una possibilità molto remota. Vorrei poter vivere il mio corpo senza i vincoli della malattia, tuttavia sento che anche il tumore mi ha trasforma to e mi ha fatto alcuni regali decisivi. Sento che ho ribaltato la visione della vita: non pretendo da Dio, attendo di comprendere dove mi vuole condurre. Il mio futuro non mi interessa più di tanto. O perlomeno non mi condiziona più la vita presente. La prospettiva della morte non mi angoscia. Sono consapevole che la sofferenza, se tornerà forte, sarà difficile da vivere. Ma resisteranno l’amore e la gioia del Vangelo e il mio popolo mi sosterrà. Posso seguire Gesù fin sulla croce. Sarà arduo. Per questo chiedo la grazia di non disperare e mi affido al Padre. Dio è più gran de del nostro dolore, più gran de del nostro cuore».
Maria Bertilla Franchetti
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