Tra le molte parole ascoltate sabato scorso all’Assemblea diocesana di Schio, sono tornato a casa rimuginando un’espressione più di una volta utilizzata: “rete di parrocchie”. Una definizione semplice, eppure nuova e illuminante, di quello che vorrebbero o dovrebbero essere nella nostra diocesi le unità pastorali. A ben guardare una definizione precisa e sintetica di “unità pastorale” finora non era mai stata data. Avvertite soprautto come una necessità legata al calo numerico dei preti, la loro realtà è stata progressivamente compresa dalla gente in modo intuitivo ed esperienziale, a partire da prassi spesso sensibilmente diversificate tra loro. Anche il documento del 2018 Orientamenti circa le Unità pastorali, raccoglieva in una cinquantina di “proposizioni” il meglio di una trentina d’anni di esperienze di tale modo di organizzare la cura pastorale e la gestione delle comunità, puntando molto sul tema della condivisione di itinerari, strutture, incontri, del “camminare insieme”, ma senza fornire in realtà una definizione precisa di che cosa si intendesse per “unità pastorali” e forse dando a volte l’idea di un passaggio intermedio in un processo di progressive e inevitabili “fusioni” e “riduzioni”. Del resto è facile intuire come il passare dal campanilismo dei tempi passati ad una collaborazione aperta e cordiale tra parrocchie chiedesse inizialmente di spingere di più sul tema del “meere insieme”, anche a costo forse di accelerare quella crisi di appartenenza e partecipazione che caraerizza un po’ tuo il mondo occidentale e si manifesta anche in una larga disaffezione dei baezzati al vissuto ecclesiale. Ora, mentre ci si appresta ad allargare ancora le Unità pastorali, compare l’espressione “rete di parrocchie”.
Quello di “rete” è un concetto interessante, mutuato dalla sociologia e divenuto familiare un po’ a tui grazie al diffondersi dell’informatica. Esprime e salvaguarda le identità individuali (nel nostro caso delle singole comunità), ponendole al contempo in relazione le une alle altre, non in modo gerarchico, ma policentrico e multilaterale. Parlare di “reti di parrocchie” pare il segno di una consapevolezza nuova, di un equilibrio raggiunto, tra il passato da cui proveniamo e quel futuro ecclesiale che stiamo cercando di immaginare e di cui sentiamo essere giunto il momento di geare le basi. Un futuro che deve passare – ne è convinto il Vescovo – araverso il superamento deciso del “clericalismo”, dando vita cioè a comunità più aperte e non giudicanti, con un basso grado di istituzionalizzazione e un’alta capacità di accoglienza, in cui donne e giovani siano più ascoltati e coinvolti nei processi decisionali, vicine ai poveri e aenti alla custodia dell’ambiente; in cui preti e diaconi esercitino il loro ministero a servizio della comunione, senza protagonismi, in forma fraterna e insieme a laici veramente corresponsabili il cui servizio sia riconosciuto nella forma dei gruppi ministeriali o dei ministeri istituiti.
Ad essere in gioco qui non è solo la “forma” della Chiesa in questo nostro tempo, ma la sua stessa essenza, la sua ragion d’essere più profonda. “La Chiesa esiste solo per prolungare la presenza e l’opera di Cristo”, ha ricordato il Vescovo. E allora le “reti”, anche quelle di parrocchie e comunità cristiane, sono da lavare, aggiustare e poi gettare ancora nell’acqua del vasto mondo, spinti non da un bisogno di autoconservazione, ma dall’unico desiderio di conquistare a Cristo e al suo Vangelo il cuore di ogni creatura, convinti, per citare il poeta romano Daniele Mencarelli che, davvero, “tutto chiede salvezza”.
Alessio Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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