«Fare esperienza di comunità vive nelle quali le persone siano protagoniste». È questa la speranza che il vescovo Giuliano vorrebbe vedere concretizzarsi nella Diocesi di Vicenza, in occasione del Giubileo appena iniziato.
Don Giuliano, per la Messa di apertura del Giubileo in Diocesi del 29 dicembre avete scelto di coinvolgere in modo speciale i ragazzi e le ragazze che ha incontrato durante gli incontri vicariali dei chierichetti. Perché?
«Lo abbiamo deciso per dare un segno di speranza. Le nuove generazioni sono la vita che cresce e per questo volevamo renderle visibili, dando inizio all’Anno giubilare con la loro presenza. Abbiamo scelto di celebrare una Messa a misura dei ragazzi perché siamo convinti che quello che loro comprendono lo possono capire anche gli adulti».
Elencare le difficolta e le ragioni delle crisi che vivono le comunità cristiane è fin troppo semplice. Ma quali sono, secondo lei, i motivi di speranza sui quali fissare lo sguardo e lavorare?
«Il primo motivo è certamente la presenza del Signore dentro alla storia. Forse quello che ci chiede di fare l’Anno giubilare è proprio questo: alzare lo sguardo verso di Lui, perché il Signore ha un’attenzione e uno sguardo sulla storia che è pieno di gratitudine e bontà . Quello che ha voluto per questo nostro mondo è il bene per gli uomini e le donne. Siamo noi che roviniamo la natura e le relazioni perché non abbiamo questo sguardo così proteso verso il futuro. Penso inoltre che ci siano tanti motivi di speranza legati alla possibilità di un riscatto da parte delle persone. Uno dei grandi temi del Giubileo è proprio questo: un riscatto è possibile per tutti, nessuno escluso. Situazioni molto difficili o anche molto dolorose non sono l’ultima parola sulla vicenda umana. Penso ai carcerati o a chi vive nei Paesi poveri, verso i quali il Papa ha rivolto un appello per un’amnistia e la cancellazione dei debiti. Non da ultimo, nel nostro contesto occidentale, c’è una ricerca di spiritualità che ha bisogno di esser maggiormente compresa e che deve trovarci disponibili all’annuncio del Vangelo di Cristo».
Il primo appuntamento giubilare in Diocesi sarà quello con i malati, l’11 febbraio a Monte Berico. Con quali attenzioni invita a viverlo?
«Il Giubileo dei Malati verrà celebrato a Monte Berico ma ci sarà probabilmente anche la possibilità di viverlo anche in altri luoghi della Diocesi. Vuole essere un momento significativo per accompagnare chi vive nella malattia e nella sofferenza a sentire vicina la comunità cristiana e a sentire che il cammino che stanno facendo è un pellegrinaggio esistenziale verso una vita piena, non semplicemente verso un’esperienza di morte che conclude tutto. Sono convinto il Giubileo dei Malati sia un’esperienza importante e bella da vivere non solo per chi soffre, ma per tutta la comunità cristiana».
Nella nostra Diocesi sono stati scelti sette santuari dove poter vivere il Giubileo attraverso il pellegrinaggio, la riconciliazione e ricevendo l’indulgenza plenaria. Si tratta dei tre conventi francescani di Chiampo, Lonigo e Barbarano, del santuario di Santa Bakhita a Schio e di quello di Scaldaferro, della Cattedrale e di Monte Berico. Come avete scelto questi luoghi?
«Un primo criterio è stato quello di avere dei punti di riferimento distribuiti nel territorio in modo che tutte le persone siano facilitate a raggiungere questi luoghi. Un secondo criterio era che fosse santuari dove potesse essere garantita un’accoglienza e un’accompagnamento, con dei sacerdoti disponibili per la confessione e strumenti di preghiera. Inoltre, sono tutti punti di riferimento sia di carattere spirituale, ma anche di testimonianza di fede».
Quale speranza le piacerebbe che annunciasse la nostra Diocesi, in particolare?
«Quella di fare esperienza concreta, reale, della presenza de Signore attraverso comunità vive, dove le famiglie si ritrovano e si riconoscono insieme alle nuove generazioni e agli anziani. Vorrei che le persone si sentissero parte in quanto protagoniste di comunità inserite nel mondo e che danno il loro contributo a partire dall’esperienza di fede».
Andrea Frison
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