Preti. Non esiste probabilmente, a dispetto di quanto si possa immaginare, categoria più varia di persone. Il Signore può chiamare chiunque e a qualunque età. Un tempo, almeno da noi, erano numerosi, i preti, avevano un ruolo ben definito nella Chiesa e godevano di una certa considerazione, pure a livello sociale. Certo non mancavano i detrattori, anche a causa di condotte non sempre esemplari di alcuni. Lo testimoniano, nel vocabolario, gli innumerevoli termini derivati: pretino, pretone, pretaccio, pretuncolo, pretesco… Eppure la maggior parte del clero era ed è tuttora sano, dedito – ciascuno a suo modo – alla cura pastorale, sinceramente innamorato di Cristo e del Vangelo e proprio per questo vicino alle gioie e alle sofferenze dell’umanità, in particolare dei piccoli, dei poveri, di chi è solo.
Oggi i preti sono pochi e danno inequivocabili segni di stanchezza e di sofferenza. Il nostro presbiterio diocesano è anziano e la salute di non pochi preti ancor giovani vacilla. Le (inevitabili, per ora) unità pastorali hanno messo seriamente in crisi il modello tridentino del parroco pastore della sua comunità. Il parroco che un po’ alla volta conosceva tutti, anche quelli che non andavano in chiesa, presente, disponibile e reperibile, dal Battesimo al camposanto. Il ministero dell’apostolo itinerante che lo ha sostituito (o almeno ci sta provando) rischia di nascondere, dietro un’immagine affascinante, solo stress, chilometri, fretta, corse, burocrazia, estraneità reciproca tra pastori e fedeli e, soprattutto, un pericoloso stato di “apolidia”, il fatto di non sentirsi a casa da nessuna parte, di non avere legami e relazioni, se non quelle funzionali alle cose da fare.
E vien da chiedersi allora se, almeno in parte, la disaffezione di molte persone alla pratica religiosa e alla vita parrocchiale, non derivi anche, oltre che dal modello tecnocratico e dalla galoppante secolarizzazione, proprio da questa impostazione del ministero presbiterale.
Certo, si dirà, il mondo intero è cambiato negli ultimi 50 anni, e ad una velocità prima inimmaginabile: non si può pretendere cha la Chiesa, la vita delle parrocchie e dunque il ministero dei preti restino uguali ad un tempo. Ma la sensazione, alle volte, è che si stia mettendo una toppa di panno nuovo su un vestito vecchio, con il rischio che, come ci ammonisce Gesù, il vestito finisca con lo strapparsi e il danno risulti ancora peggiore.
Il cammino sinodale che impegna la Chiesa, anche la nostra chiesa diocesana, fa sperare in nuove visioni che, evangelicamente radicate, portino a scelte coraggiose, capaci di ridare gioia e speranza alle comunità e ai loro pastori. Perché questo avvenga è necessario innanzitutto pregare e poi partecipare ai diversi momenti che saranno proposti nei prossimi mesi nei vicariati e nelle parrocchie: insieme, vescovo, preti, diaconi, laici e religiosi, ci si interrogherà proprio sulla presenza della Chiesa sul territorio, una presenza che non potrà essere capillare come un tempo, ma che vogliamo torni ad essere più efficacemente sale e lievito, fuoco vivo e luce per il mondo. Le piccole fraternità presbiterali verso cui la nostra diocesi si va decisamente orientando sono già un segnale di tale rinnovamento e del resto, nella storia, la riforma della Chiesa è sempre passata attraverso la riforma della vita del clero.
Certo la Chiesa non sono solo i preti, ma – paradossalmente – oggi proprio i preti rischiano di esserne l’anello più debole. I laici, e tra questi le donne, hanno maturato negli ultimi anni una maggiore coscienza della loro dignità, del loro sacerdozio battesimale e della loro chiamata ad una corresponsabilità e ministerialità, nella e per la comunità ecclesiale. I preti, invece, devono capirsi, e ritrovare un’identità e un modo di essere presenti che, forse troppo a lungo, sono stati dati per scontati.
Alessio Graziani