Il maestro ha subito precisato di aver voluto fare solo una “riflessione di carattere generale”. Eppure quel prolungato e scrosciante applauso che ha accompagnato le sue parole rivolte “agli uomini e alle donne di governo” durante il Galà della Grande Opera Italiana a Verona venerdì scorso, rivelano che Riccardo Muti ha evidentemente colpito nel segno, dando voce, con la pacata eleganza che gli è propria, ad un malessere diffuso. «L’orchestra – ha spiegato – è come la società: ci sono i violini, i violoncelli, le viole, i contrabbassi, i flauti, gli oboi, i tromboni… ognuno di loro spesso ha parti completamente diverse, ma devono concorrere tutti, pur avendo frasi diverse, ad un unico bene, che è quello dell’armonia di tutti. Non c’è il prevaricatore, infatti, molte volte io continuo a dire anche ai miei musicisti, che c’è un impedimento alla musica, ed è… il direttore d’orchestra!». Muti insomma non è rimasto muto e, prima di alzare la sua bacchetta verso l’orchestra per dare il La al concerto con le arie più celebri di Puccini, Verdi, Rossini, Bellini, Donizzetti… (quel “patrimonio immateriale dell’umanità” che la serata intendeva celebrare), l’ha rivolta verso autorità, politici e amministratori assiepati sul palco reale dell’Arena, bacchettandoli per bene. A buon intenditor, poche parole. Duplice, ci sembra, il monito lanciato dal maestro Muti. Innanzitutto quello agli “orchestrali”. Ognuno ha la sua parte, magari molto diversa da quella degli altri suonatori, ma ogni parte è ugualmente importante e nessuno deve cercare di prevaricare sugli altri. Di “tromboni”, anche nell’ultima campagna elettorale, ne abbiamo davvero sentiti troppi, fracassoni, inopportuni e fuori tempo. Ma ancor più grave è il richiamo di Muti alla responsabilità del “direttore d’orchestra”, che non deve essere di ostacolo alla buona musica, ma è chiamato invece a creare l’armonia tra tutti e per il bene di tutti. Colui che deve dirigere l’orchestra non deve essere dunque divisivo e non deve peccare in alcun modo di protagonismo perché non è l’orchestra che deve dare visibilità al direttore, ma è il direttore, semmai, che deve lavorare per permettere ai musici di esprimersi al meglio, creando un insieme armonioso. Il richiamo del maestro Muti ai politici (in particolare a chi è al governo, ai “direttori”) ha in sé qualcosa di squisitamente cristiano: l’idea che il potere non è finalizzato all’affermazione di sé stessi, ma è dato per il perseguimento del bene comune. Dice Gesù: “Se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servo di tutti; e se uno vuol essere il primo, si faccia servitore di tutti” (Luca 10,44). Insegnamento che il Maestro (in questo caso Gesù) ha corroborato con un’esistenza interamente donata per amore, sino alla morte sulla croce. Purtroppo il potere, in tutte le sue declinazioni e a tutti i livelli, tende molte volte più spesso a servirsi del prossimo per consolidare sé stesso che non a servire il prossimo. E gli antidoti a tali pericolosi protagonismi, sempre in agguato con le conseguenti derive autoritarie, non possono certo ridursi a qualche operazione di maquillage linguistico, come ad esempio nella scelta di non farsi più chiamare “direttore”. Ciò che più in profondità deve cambiare è, come insegna il Vangelo, la concezione e l’esercizio di quel potere, poco o tanto che sia, che ci si può ritrovare tra le mani, perché altrimenti, privati oggi spesso anche degli argini imposti dalla buona educazione e dal senso dell’istituzione, i danni potrebbe risultare peggiori di quelli che si volevano evitare. L’importante comunque, davanti al pervertimento del potere, è trovare sempre il coraggio di non restare muti.