Maurizio Ferron, 60 anni appena compiuti, è il coordinatore del tavolo “Lavoro ed Economia”, uno dei cinque gruppi di lavoro che, da giugno dello scorso anno, stanno preparando l’Arena di Pace 2024, il grande momento assembleare che, il prossimo 18 maggio, vedrà a Verona anche la presenza di papa Francesco. Originario di Grancona, vive nella parrocchia del duomo di Montecchio Maggiore dove spesso svolge il servizio di lettore della parola di Dio nella liturgia. Sindacalista da una vita, fa parte della segreteria della Cgil del Veneto.
Ferron, ma si può ancora credere nella pace oggi, con tutto quello che sta accadendo nel mondo?
«Certo che si può. Anzi, dobbiamo crederci. Ma la pace non è una cosa che pioverà dal Cielo. La pace è un dono del Risorto, certo. Ma c’è bisogno dell’impegno di ciascuno di noi. Il Signore ci ha dato delle mani, un cuore e una testa per essere costruttori di pace. Parafrasando una bella definizione di che cos’è la profezia, vorrei dire che la Pasqua per me è tra i futuri possibili e già insiti nella nostra quotidianità, quello che meglio risponde al sogno di Gesù per noi, per far fiorire la nostra comune umanità. Ha a che fare con la speranza, che non cede il passo all’assuefazione, all’indifferenza e alla paura, ma continua a credere che le cose possano cambiare, in meglio».
Il logo dell’Arena di Pace cita il salmo 85: “giustizia e pace si baceranno”. Non c’è pace senza giustizia?
«L’impegno per la giustizia sociale, che per me si è tradotto in impegno per la dignità e la sicurezza del lavoro e dei lavoratori, è prioritario per costruire la pace. Il lavoro è una dimensione fondamentale della vita, in cui si mettono a frutto le proprie competenze, si esprime sé stessi, ci si emancipa e si contribuisce al bene comune. Questa dimensione della vita oggi è in grande sofferenza perché troppe volte il profitto e il mercato sembrano essere gli unici criteri che orientano le scelte. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una crescita preoccupante della frammentazione e della precarietà del lavoro, con conseguenze pesanti per la tenuta del nostro tessuto sociale. Sono i frutti di un neo-liberismo sempre più aggressivo. C’è una grande enfasi mediatica per gli immigrati che arrivano tra noi, ma forse dovremmo dare più attenzione ai giovani che se ne vanno dall’Italia».
Sono loro la fascia più debole della popolazione?
«I giovani sperimentano una grande precarietà sul mercato del lavoro, che certo non li aiuta a fare progetti per il futuro. Basti pensare che in Veneto l’80% dei nuovi contratti di lavoro siglati l’anno scorso sono contratti a tempo parziale o caratterizzati dalle varie forme di tempo determinato. Ma non sono solo i giovani a soffrire di tale situazione. Oggi assistiamo ad una piccola fascia di lavoratori, molto ristretta e impiegata soprattutto negli ambiti delle nuove tecnologie, che evolve conquistando posizioni importanti, e ad un gran numero di persone che fino a non molto tempo fa potevano condurre una vita serena e che ora invece scivolano sempre più in basso, a volte sulla soglia della povertà. I sociologi la chiamano la “proletarizzazione” o scomparsa della classe media. Difficile che ci sia pace con una parte considerevole della società in questa situazione».
Quali sono gli altri ingredienti della pace?
«Direi che corrispondono ai temi dei gruppi di lavoro che stanno preparando l’Arena di Pace. Oltre al diritto ad un lavoro dignitoso, prima di tutto un’economia dal volto umano. Oggi purtroppo sta fiorendo un’economia di guerra che genera una ricchezza immediata per pochi, ma che ci renderà tutti più poveri alla lunga, perché a servizio di una macchina di distruzione e di morte. C’è poi il grande tema della partecipazione democratica, su cui sta lavorando molto un’altra vicentina, Patrizia Farronato. La politica detta le regole del gioco, ma i singoli cittadini hanno la possibilità di orientare la politica. Non dobbiamo assolutamente rinunciare alle diverse forme di partecipazione democratica, a partire dal voto. Un altro ingrediente per costruire la pace è poi la cosiddetta riconversione ecologica delle attività produttive che deve però sempre avere una sua sostenibilità sociale. Se un’attività produttiva deve cambiare perché produce rischi per la salute della gente o del territorio, il costo del cambiamento non può cadere sugli operai, sui lavoratori».
Sembrano problemi davvero più grandi di noi…
«Lo sono, ma non dobbiamo diventare fatalisti. Ogni singola persona può dare il suo contributo al cambiamento. Prima di tutto informandosi e diventando più consapevoli delle dinamiche e dei problemi sociali. Poi mettendo in atto stili di vita responsabili e sostenibili. Infine cercando di orientare la politica, perché agisca per il bene comune e in una prospettiva di pace».
Ma quando è nata questa sua passione per la pace, il lavoro e la giustizia sociale?
«Certamente è stata determinante l’esperienza dei miei genitori. Entrambi dovettero migrare in Svizzera all’inizio degli abbi ’60 perché qui il lavoro mancava. Affrontarono grandi sacrifici, senza tutele. Poi è stato importante far parte da ragazzo della GIOC, Gioventù Operaia Cristiana. Eravamo un gruppo un po’ contestatore, ma don Flavio Grendele ci ha presi sul serio, ci ha ascoltati con attenzione e insieme abbiamo imparato il metodo vedere-valutare-agire che resta fondamentale nell’impegno sociale».
La Chiesa sa ancora essere vicina al mondo degli operai e dei giovani precari?
«Papa Francesco è molto attento alle tematiche e alle realtà del lavoro. Lo sentiamo vicino. A livello locale ci sono esperienze molto belle, come il Centro Myriam di Vicenza. Però, come in altri ambiti, anche quello sindacale, avvertiamo che si è persa una generazione. È difficile che un giovane trovi posto in una realtà fatta soprattutto da persone anziane. La Chiesa poi deve per sua natura essere aperta a tutti, ma non deve rinunciare a stare dalla parte degli ultimi, magari per paura del conflitto. Sarebbe un falso irenismo, non un efficacie impegno per la pace».
Alessio Graziani