Qualche anno fa, con mia moglie ed una coppia di amici, abbiamo intrapreso un viaggio in Mongolia, attirati più da quello che non sapevamo che da quel poco che ci era stato raccontato. E’ stata una continua scoperta e mi ritrovo spesso a pensare a quel viaggio e le emozioni provate allora sono ancora molto vive in me. Il primo contatto (oltre che con la nostra guida ed il nostro autista) è stato con la ger, o come molti di noi la chiamano, con la yurta. La ger non è solo la tenda-casa in cui questo popolo di pastori o allevatori nomadi vive, ma una parte importante del mondo in cui trascorrono la loro vita; noi ci abbiamo dormito per 12 giorni.
Considerando che la Mongolia ha una superficie di circa 5 volte quella dell’Italia, che la popolazione è di soli 3 milioni di abitanti di cui quasi il 60% vive tra la capitale Ulaanbaatar e le altre 3 o 4 città, potete immaginare come siano immense le zone disabitate. Questa è una delle emozioni più forti: il senso di infinito, di primordialità di assenza di presenza umana. Il cielo limpido, l’assenza di inquinamento (esclusa la capitale) portano la linea dell’orizzonte talmente lontano che da retta diventa curva evidenziando la curvatura terrestre. La sensazione di quanto noi siamo piccoli e limitati ci ha accompagnato in questi spazi infiniti (o quasi).
Siamo stati alle “rupi fiammeggianti” un luogo magico e bellissimo dove sono stati ritrovati importanti resti di dinosauri e siamo rimasti a lungo seduti in silenzio ad ammirare il paesaggio consapevoli che, nonostante fossero passati milioni di anni, poco era cambiato
In poche righe è stato un viaggio in un paese sconosciuto, dove la nostra civiltà sparisce, le strade asfaltate non esistono, il contatto con la natura selvaggia e incontaminata è costante e il rapporto con gli uomini è sincero e disinteressato.
In questo luogo lontano e quasi sperduto si è avventurato un gesuita francese che si chiamava Pierre Teilhard de Chardin. Era un uomo con una preparazione scientifica, un antropologo delle culture e cercava, tramite l’analisi di alcuni territori di comprendere il nesso tra il cammino evolutivo del cosmo e dell’uomo con la fede e quindi con la presenza e l’azione di Dio nel mondo. Evidentemente un percorso molto arduo e difficile ma soprattutto carico di insidie da un punto di vista teologico, perché era facile scadere nel panteismo, cioè nel riconoscere in tutto ciò che è materiale la presenza di Dio senza però indentificarne un volto preciso. Inoltre questo ambito di ricerca era stato certamente approfondito da un punto di vista filosofico e metafisico nei secoli precedenti ma questo gesuita voleva comprenderne la cerniera che legava profondamente il dato fisico e quello meta-fisico, cioè oltre la realtà stessa.
Nell’esperienza fatta in Mongolia coniò una sua ben precisa prospettiva e cioè che tutto il mondo venuto da Dio è in movimento e si sta orientando verso di lui, cioè per dirla con l’Apocalisse verso il “punto Omega”. Addirittura in una determinata situazione qui i Mongolia ebbe a formulare la “messa sul mondo” non tanto con gli elementi classici dell’eucarestia, ma tramite la comprensione di alcuni simboli che la natura stessa gli offriva. Ebbe delle vicissitudini molto problematiche fin al Concilio Vaticano II ma poi fu totalmente riconsiderato fino a diventare uno dei massimi interpreti del rapporto tra la fede e la scienza e oggi ne è un caposaldo imprescindibile.
Zanon Claudio e don Raimondo Sinibaldi