«Balzano ai nostri occhi le tante persone che sono giunte in mezzo a noi negli ultimi mesi per bussare alle porte delle parrocchie, dei comuni e delle nostre case: i migranti. Possiamo dire che sono realmente degli sconosciuti. Hanno compiuto un lungo cammino e la ricerca di una vita migliore, di libertà, di futuro li ha portati accanto a noi. Laddove hanno trovato una porta aperta sono entrati. Un giorno Gesù ha raccontato una parabola sul giudizio finale nella quale vi erano anche i migranti: “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Chi ospita uno straniero accoglie Gesù». Con queste parole il vescovo Giuliano, nella sua “Lettera per il cammino sinodale nella diocesi di Vicenza” presentata venerdì 15 settembre a Monte Berico in occasione del pellegrinaggio per l’inizio del nuovo Anno pastorale (vedi pagina 13), indica la necessità di “vedere” i migranti, di riconoscerli come persone e come fratelli (e non solo come un numero e un problema), di sapersi mettere in ascolto delle loro storie e delle loro speranze. E allora, in occasione della 109a^ Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebra in quest’ultima domenica di settembre, vi raccontiamo le storie, raccolte occhi negli occhi, di due persone che in questi ultimi mesi hanno bussato alle porte delle nostre parrocchie in cerca di aiuto, ma soprattutto di un sorriso che ridonasse loro il calore di una famiglia perduta o troppo lontana. I loro nomi sono di fantasia, perché la loro condizione è fragile e merita ogni prudenza e delicatezza.
Marko ha 21 anni. Sul braccio porta tatuate la croce e la Vergine Maria. Sul capo i segni di alcune percosse stanno lentamente sparendo. Nonostante tutto sorride, con le labbra, ma più ancora con gli occhi. Alcune settimane fa ha bussato alla porta della parrocchia del paese in cui si trova il centro di accoglienza che lo ospita. Sta cercando di migliorare la sua conoscenza dell’italiano e recentemente ha iniziato a lavorare. È arrivato in Italia dalla Libia, su un peschereccio, uno dei famosi barconi, di cui ci mostra una foto e un video, girato con il suo telefono durante la terrificante traversata. «Sono stato in Libia per circa due mesi – racconta alternando l’italiano all’inglese – prima di poter partire. Eravamo forse più di 400 persone in un appartamento di 5 stanze. Eravamo così stretti che dovevamo dormire seduti, schiacciati sul pavimento uno accanto all’altro, non c’era posto per stendersi. Poi finalmente una notte, verso le due del mattino, ci hanno chiamati. Ci hanno fatto correre per 7 km, se uno si fermava per la stanchezza veniva subito bastonato. Siamo arrivati alla barca. Ci hanno dato qualche galletta e una bottiglia d’acqua ogni dieci persone. La traversata è durata quattro giorni e quattro notti». Nel video di Marko si vede questa barchetta stracarica di persone che urlano, sballottate dalla tempesta, tra onde alte diversi metri. Una barca che comunque è riuscita a portare in Sicilia il suo carico di vite umane, di sofferenze e di speranze per un futuro migliore. La storia di Marko inizia in Egitto, in un piccolo paese delle zone più interne e per molti versi arretrate. Dove lo Stato, con le sue fragili istituzioni, spesso è sostituito da altri poteri e dove i diritti umani spesso non sono rispettati. «Io sono cristiano copto – racconta ancora Marko nello spiegarci i motivi della sua fuga. La nostra comunità voleva costruire una chiesa nel nostro villaggio, ma questo ha infastidito molto un gruppo integralista islamico. Un giorno alcune di queste persone hanno iniziato a importunare mia sorella. Io sono intervenuto. C’è stata una rissa e sono finito all’ospedale. Mentre mi stavano dimettendo mi hanno avvertito che volevano farmi fuori. Allora sono scappato, con il treno fino a Il Cairo dove ho dei parenti. Abbiamo capito che la situazione per me era pericolosa e quindi ci siamo messi nelle mani di una organizzazione che mi ha fatto arrivare in Libia. Il resto lo sapete». Trafficanti di essere umani, cui Marko ha versato oltre tremila dollari. Per non vivere più nella paura.
Anastasia ha 62 anni e viene dall’Ucraina. È arrivata qui molto prima dell’invasione russa. Nonostante sia in Italia già da alcuni anni non è ancora riuscita a regolarizzare la sua posizione. Pare impossibile, ma ancora ci sono famiglie italiane che preferiscono far lavorare “in nero” donne come lei, nelle pulizie della casa o nell’assistenza notturna di qualche anziano. Senza diritti e senza stabilità. Anastasia vive da una sua connazionale che le sub-affitta una stanza. Gira sempre con delle grandi borse, in una specie di questua per sé e per i propri nipoti cui spedisce ogni settimana, con appositi corrieri che fanno la spola, vestiti, medicine e generi alimentari. Anastasia non si è mai sposata, conosce un sacco di preti, è molto religiosa. «Ogni giorno vado nella chiesa del paese in cui vivo – racconta – partecipo alla Santa Messa, poi quando è finita vado a leggere il Vangelo di nuovo, per conto mio, per capire meglio. A volte c’è un prete anziano che mi parla e mi spiega pazientemente la parola di Gesù. Per me questo è bellissimo, perché mi sembra di essere di nuovo insieme a mio nonno». Si, avete capito bene. Anastasia è greco cattolica e suo nonno era un sacerdote, sposato e con figli, come è normale per loro. «Il nonno aveva una bella parrocchia in campagna e andava anche a insegnare in Seminario. Poi – si commuove – dopo la seconda guerra mondiale, con il regime comunista di Stalin, lo misero in prigione per quasi quindici anni. Perse tutti capelli e i denti, ma almeno tornò a casa vivo e tutta la famiglia poté riabbracciarlo, fu solo allora che io lo conobbi».
Storie così potremmo raccontarvene tante. Storie di uomini e donne che si mettono in viaggio, storie che si intrecciano con la grande storia e che chiedono di essere ascoltate, prima di ogni altra considerazione.
Alessio Graziani