Il bambino sfugge dalla mano della mamma. Non ha più di tre anni. Sgattaiola avanti, tra le gambe della gente. Tiene pericolosamente in mano una candela accesa che riflette la fiamma nei suoi occhi nerissimi, sfiorando i bordi di giacche e cappotti. Raggiunge la croce, in testa alla processione. Ora quel bambino sorride felice. Finalmente è con sua sorella, una bella ragazzina indiana che da qualche tempo ha iniziato a fare la chierichetta in parrocchia. Anche lui, come lei, voleva stare vicino a Gesù.
Il tutto è avvenuto in pochi istanti, a mezzo metro da terra, nel buio di una via crucis serale per le vie di un piccolo paese. Non so quanti abbiamo avuto la grazia di accorgersene. Ma nella corsa risoluta di quel bimbo che si è lanciato nell’oscurità con un piccolo segno luminoso in mano mi è parso di rivedere la corsa delle donne o quella di Pietro e di Giovanni la mattina di Pasqua; la corsa di tanti innamorati di Cristo che in ogni epoca continuano, guardando la croce, a credere nell’impossibile: è risorto!
E tale fede procura loro una gioia inspiegabile, pura, fanciullesca. “Se non ritornerete come bambini, non entrerete”, ha detto Gesù, facendo dei piccoli il metro di chi cerca di comprendere i misteri del Regno dei Cieli.
E allora anche noi, una buona volta, dovremmo forse trovare il coraggio di lasciare la mano della mamma. Mano benedetta, s’intende, ma che spesso, nel suo desiderio di protezione, ci costringe ad un buon senso rassicurante e mediocre, privo di slanci amorosi e di reale passione evangelica. Restiamo al nostro posto nella processione della vita (che tante volte assomiglia effettivamente ad una via crucis) e ne siamo magari anche contenti. Tutto si svolge in maniera ordinata e tranquilla. Ma manca la gioia, quella che ci chiede di correre, di rischiare il tutto per tutto, di gettarci a capofitto con il rischio magari di incendiare il mondo, di far morire l’uomo vecchio e diventare creature nuove, irriconoscibili perfino a noi stessi, trasfigurati da un sorriso. Liberi e desiderosi di cantare. Perché la morte è vinta, il suo potere non è più assoluto. Le sue fauci non inghiottono per sempre. “Siate lieti nella speranza”, esorta l’Apostolo, sempre e comunque. La gioia cristiana nasce dalla speranza. E la virtù teologale della speranza, ben diversa dagli inconsistenti ottimismi mondani, nasce proprio dalla Pasqua del Signore.
Il poeta francese Charles Peguy, in un’immagine tanto cara a papa Francesco, dice che “delle tre sorelle è la più piccola e la più dimenticata”. Tenuta per mano dalla fede e dalla carità, la speranza avanza gioiosa e giocosa, rischiando di mimetizzarsi tra le gambe delle due sorelle maggiori. “Il popolo cristiano – continua Peguy – non fa attenzione che alle due sorelle grandi. La prima e l’ultima. E quasi non vede quella che è in mezzo. Persa nelle gonne delle sue sorelle. Credono volentieri che siano le due grandi a tirare la piccola per la mano… ciechi che sono! non vedono invece che è lei nel mezzo che si tira dietro le altre due. E che, senza di lei, loro, la fede e la carità, non sarebbero nulla. Se non due donne già anziane e sciupate dalla vita”.
Non mancano la fede e la carità nelle nostre comunità, come evidentemente nel cuore di molti. Eppure il senso di stanchezza, di affaticamento che spesso percepiamo sembrerebbe tradire proprio una mancanza di speranza. Quale momento più bello e opportuno della Pasqua, allora, per riaccenderla nei cuori e ritrovare la gioia! A partire da quel fuoco che, acceso alle porte delle nostre chiese nella madre di tutte le veglie, squarcia l’oscurità, “frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte”. Giocondo e forte – dice san Francesco – come la speranza. Sia una Pasqua piena di luce e di gioia, per tutti.
Alessio Graziani