Prendi il folk americano, uniscilo al repertorio musicale popolare veneto, aggiungi un po’ di cabaret, sigilla tutto con un nome che rievoca la cronaca nera degli anni ’70 e otterrai un gruppo folk-comico- teatrale che a cinquant’anni festeggia con orgoglio le sue “Nossedoro”. È questo il titolo scelto dall’Anonima Magnagati per lo spettacolo che celebra 50 anni di attività in tour nel Vicentino dagli ultimi mesi dello scorso anno, mentre il prossimo 23 luglio sarà in piazza dei Signori con un evento organizzato da TvA che ha già registrato il tutto esaurito. Tra il 1973 e il 1974, infatti, l’Anonima Magnagati esordiva con il primo album in vinile, “Strasse, ossi & fero vecio” e il primo spettacolo teatrale: “Fesso chi regge”.
All’origine dell’Anonima Magnagati c’è un duo formatosi negli anni Sessanta, composto dal compianto Toni Vedù (artista ed illustratore vicentino scomparso nel 2015) e Ferruccio Cavallin. «All’inizio ci chiamavamo “Folk Studio 3” – racconta quest’ultimo -, suonavamo folk americano durante gli intervalli dei concerti rock in provincia. Erano gli anni del primo Bob Dylan, e da lì si faceva presto a scoprire cantanti come Joan Baez Pete Seeger e Woody Guthrie. Con l’arrivo del bassista Roberto Meneguzzo (altro membro dell’Anonima Magnagati, ndr), siamo diventati un trio».
Come siete approdati alle canzoni in dialetto veneto?
«Per “colpa” di Bepi de Marzi, che ci fece conoscere il lavoro di Vere Pajola, studioso di musica popolare che girava per le valli vicentine con il registratore a raccogliere canzoni tradizionali. Siamo andati a trovarlo e così abbiamo cominciato a fare canzoni in dialetto veneto, riadattandole però agli strumenti che suonavamo noi: chitarra, basso mandolino e banjo. Il banjo con il Veneto non c’entra niente, ma non ci interessava il recupero in senso filologico di quelle canzoni, volevamo contaminarle con il folk».
Quindi, dopo essere passati dal folk americano al folk veneto, qual è stato il passaggio successivo?
«Al gruppo si è aggregato Bob Morello, un vicentino che arrivava da una grande esperienza di animazione in Azione Cattolica. Aveva un approccio diretto con il pubblico, era un comico naturale. Con lui abbiamo iniziato a presentare le canzoni in modo spiritoso, così siamo diventati un gruppo musical-teatrale o di “folk-cabaret”, come lo chiamavamo noi».
Come nasce il nome “Anonima Magnagati”?
«È stata un’idea del nostro produttore Feliciano Ponte, gestore della galleria Ponte di Vicenza. Erano gli anni della Anonima Sequestri, la banda di rapitori sardi. Il nome viene da lì».
Perché avete deciso di produrre canzoni e spettacoli solo in dialetto?
«Perché ha un suo ritmo, una sua espressività. Sono queste le ragioni per cui è ancora parlato, è una lingua madre molto più espressiva dell’italiano, soprattuto per esprimere situazioni emotive che in italiano dovresti descrivere con lunghi giri di parole. S-ciantisi, freschìn sono parole che arrivano subito alla gente. Inoltre, il nostro non è un dialetto “filologicamente corretto”, è una lingua addomesticata, un’astrazione, perché da Arzignano a Vicenza, il dialetto cambia».
A proposito di parole, fate un grande uso dell’espressione pastasuta col ton, perché?
«Sessìbon, pastasuta col ton di per se’ non vuol dire niente, sono quelle espressioni che impari da bambino e che rimangono per il piacere della rima. Nelle canzoni le utilizziamo per il loro valore ritmico, musicale, è un gioco un po’ primitivo e un po’ infantile».
Chi scrive i vostri testi?
«È sempre stato un lavoro collettivo. Per le musiche ci siamo spesso affidati a musicisti, mentre per gli spettacoli teatrali abbiamo iniziato con Renato Stanisci, poi ci siamo affidati a Roberto Cuppone,
collaborazione che continua fino ad oggi».
Riprendiamo il filo della storia. Nel 1984 Pierandrea Barbujani sostituisce BoboMorello. Cosa cambia per l’Anonima Magnagati?
«Morello ha impresso la “svolta comica” al gruppo, Barbujani l’ha portata ad un livello di comicità più fisica, in cui gli altri tre gli facevano da spalla. Quella è diventata la formazione definitiva dell’Anonima ».
Formazione che nel 2015 ha però perso Toni Vedù, scomparso a casa di una malattia.
«È stato un momento molto difficile. Con Vedù era partito tutto, lui era l’anima artistica del gruppo, arricchiva gli spettacoli con disegni e vignette. Era un artista riconosciuto, aveva fatto mostre e vinto premi. Siamo riusciti ad andare avanti, ma senza sostituirlo, perché era davvero insostituibile».
In questi anni è capitato che qualche vostro spettacolo all’aperto saltasse a causa del maltempo. Non era raro trovarvi allora in qualche bar, ad improvvisare battute. Che rapporto avete con il pubblico?
«Abbiamo bisogno di “sentire” la gente. Ci accorgiamo molto della differenza che c’è recitando, per esempio, al Teatro Comunale di Vicenza o in un piccolo locale dove hai il pubblico ad un metro di distanza. È una differenza che si ritraduce in un diverso rapporto con il pubblico. La gente che ride, reagisce, respira… è quello che ci dà l’energia».
In questi 50 anni avete fatto spettacoli all’estero nei circoli dei Vicentini nel Mondo, ma soprattutto avete girato la provincia di Vicenza e il Veneto in lungo e in largo. Come siamo cambiati noi veneti in questi anni?
«Ci sono stati tanti cambiamenti legati allo sviluppo economico e tecnologico. Ma l’animus veneto è rimasto lo stesso, un po’ ingenuo, semplice, naïf. Economicamente il Veneto è cresciuto, ma culturalmente è rimasto quello di 30-40 anni fa. Non a caso la gente parla ancora molto in dialetto. C’è un “sentirsi veneti”, un modo di esprimersi, di vivere e di vedere le cose del mondo. Però, se devo fare una critica, questo modo semplice di vedere le cose ha portato ad una cultura del “fare in concreto”, meno del pensare e dell’elaborare. Tendiamo a semplificare troppo le cose e questo ci penalizza. Manca una elaborazione, un’astrazione, un pensiero critico… manca saper capire, in quello che ci sta intorno, cosa vale e cosa non vale».
Ragionamenti ‘seri’ per un comico…
«La nostra è una comicità popolare, certo, ma vorremmo che la gente tornasse a casa pensando. Oggi purtroppo anche la comicità è un prodotto di consumo come tanti altri. Per questo abbiamo fatto sempre poche comparsate in televisione e praticamente non siamo presenti sui social. Il nostro regista ci ha sempre detto: “alla fine dello spettacolo, bisogna che la gente pensi”. La gente ha bisogno di ridere, di distensione. E l’autoironia permette di guardarsi da fuori e conoscersi meglio. Vale anche per noi dell’Anonima Magnagati. Questo è l’elemento che ci ha tenuti in vita per cinquant’anni».
Andrea Frison