«Ogni giorno affrontiamo il buio che avvolge completamente le montagne, impariamo una parola nuova in ‘tetum’, la lingua del posto, cerchiamo di instaurare relazioni di vicinanza e fiducia con la popolazione, pensiamo a più piccoli che devono camminare più di un’ora per andare a scuola». È con «un intreccio fittissimo di sentimenti, pensieri, proiezioni sul futuro e al tempo stesso di nostalgia del passato» che suor Maria Simona Vinci, 37 anni, suora della Divina Volontà di Bassano, racconta il suo primo anno dall’altra parte del mondo, nella missione di Timor Est (paese nel sud-est asiatico, sopra l’Australia). Lo scorso maggio è arrivata nel villaggio di Maumeta, circa 50 km dalla capitale Dili, assieme a due consorelle: suor Lourdes Benavides Bravo, ecuadoregna di 44 anni e suor Maria Lucia de Oliveira Costa, brasiliana di 51 anni. Le tre religiose (nella foto grande, da sinistra suor M.Simona, suor Lourdes e suor M.Lucia) sono impegnate in una missione nata grazie all’intesa tra la congregazione fondata dalla Beata Gaetana Sterni e l’Arcidiocesi di Dili, dal Vescovo Virgilio do Carmo da Silva. Una realtà difficile: «Tanta povertà, in tutte le sue forme, precarietà della vita, case fatiscenti».
Suor Maria Simona come state?
«Dopo l’impatto e le fatiche iniziali, il cambiamento di clima, di alimentazione possiamo dire di stare bene. Abbiamo raggiunto un nuovo equilibrio e ci siamo adattate a questa realtà con le sue numerose sfide. Personalmente l’impatto è stato molto forte. Quello che sto vivendo è una opportunità grande per portare alla luce il bello e il meno bello che sono nascosti dentro di me».
Un bilancio di questo primo anno.
«Sicuramente positivo. Fin dall’inizio ci siamo poste in “ascolto” della realtà. Quando ancora sapevamo dire solo poche frasi di circostanza e non capivamo quasi nulla, ci siamo rese disponibili a lasciarci condurre dalla gente, a “esserci” con semplicità per iniziare a condividere la vita prima di ogni altra cosa o progetto».
Come procede lo studio della lingua locale, il ‘totum’? (L’altra lingua parlata è il portoghese) «Dopo aver studiato con alcuni insegnanti, abbiamo capito che per imparare dovevamo soprattutto stare con la gente, fare la fatica di ascoltare e lo sforzo di parlare anche sapendo di sbagliare. Oggi ognuna continua con lo studio personale e un proprio metodo. Comprendiamo il senso dei discorsi, riusciamo a comunicare e a farci capire».
In cosa siete impegnate concretamente ogni giorno?
«Fin dai primissimi giorni abbiamo iniziato a partecipare alla preghiera serale del rosario nelle case (si fa abitualmente per tutti i mesi di maggio, giugno e ottobre) affrontando la “paura” del buio che avvolge completamente le montagne, e del non ancora conosciuto. In questo primo anno abbiamo soprattutto cercato di “costruire” relazioni, vicinanza, fiducia, partecipando ai diversi ambiti della vita sociale ed ecclesiale. Una consorella, infermiera professionale, si interessa dell’aspetto sanitario: aiuta qualche malato e condivide le sue competenze con il personale del piccolo ambulatorio del villaggio. Partecipiamo alcune ore settimanali alla vita della scuola. Stiamo continuando a coltivare una fiducia reciproca con i catechisti e i ministri dell’eucarestia presenti nei diversi villaggi, che ci aiutano a visitare le famiglie, i malati, i piccoli agglomerati di case sparsi qua e là nella montagna e meno accessibili. Cerchiamo di contribuire con la nostra presenza all’animazione delle quattro comunità cristiane che fanno riferimento alle tre cappelle dei villaggi di Maumeta, Fahisoi, Hautogo (dove c’è la stazione missionaria principale).
Quali sono le maggiori difficoltà?
«Le difficoltà maggiori sono proprio intrinseche al contesto economico, sociale, strutturale di questo piccolo paese asiatico. Nelle montagne, dove anche noi viviamo, le difficoltà aumentano perché si è più isolati, le possibilità di sviluppo sono molto limitate, l’offerta lavorativa è praticamente ridotta all’attività rurale domestica che garantisce un minimo di autosussistenza o alle migrazioni dei più giovani verso Australia, Portogallo o altri stati dell’Asia. I collegamenti con la città di Dili o con altri centri sono difficili: in alcuni tratti le strade sono inagibili, soprattutto nel periodo delle piogge. Scarsa formazione, ridotte possibilità lavorative, fragilità del sistema scolastico sono alcune delle maggiori carenze. Per quanto riguarda il contesto religioso, Timor Est è uno dei Paesi ad alta percentuale cattolica, ma, come dice anche il nostro parroco nelle sue omelie, bisogna puntare alla qualità e a una conoscenza sempre più profonda della nostra fede. Nelle realtà di montagna la Chiesa non sempre può garantire una costante presenza di sacerdoti e religiosi che aiutino nella formazione dei laici. Sono le devozioni popolari che alimentano e mantengono viva la fede… forte e semplice. Sentiamo a volte il senso di impotenza e della sproporzione: in fondo siamo una piccola comunità con le nostre fragilità e con i nostri limitati mezzi, e le emergenze ci superano di gran lunga».
Progetti per il futuro?
«Di fronte all’emergenza educativa e scolastica vogliamo continuare a rafforzare percorsi di vicinanza e sostegno ai bambini, attraverso incontri settimanali nei diversi villaggi, per avviare (speriamo) lentamente un cambiamento che parta proprio dalle nuove generazioni. Accompagnamento scolastico, attività ludico-formative di vario genere sono un binario che crediamo necessario per poter piano piano incidere positivamente sulla qualità dell’apprendimento e della vita di questi bambini e ragazzi. Desideriamo inoltre dare vita ad una casa pastorale al servizio della comunità. Immaginiamo un luogo che possa risvegliare la speranza e incentivare la curiosità e la conoscenza, magari attraverso un luogo privilegiato per lo studio come la biblioteca e una sala multimediale. Per adesso siamo ancora nella fase della progettazione, del sogno, fiduciose che si apriranno strade concrete per poterlo realizzare».