Anche ai preti può capitare di distrarsi durante la Messa. Al Santo a Padova difficile restare immuni dalla tentazione di seguire il profilo degli alti pilastri, perdersi nell’intreccio delle volte e delle cupole, con templare le vetrate e i mille decori di epoche diverse che concorrono a creare un’atmosfera magica e come sospesa nel tempo.
Mentre il Vescovo predica sul fuoco che animò la vita di Antonio, distoglie la mia attenzione il grande orologio medioevale a forma di sole posto sopra l’ingresso della sacrestia. Me lo ritrovo davanti mentre son seduto nel vasto presbiterio. L’affresco che lo circonda riporta una frase in latino che l’artista si è divertito a scomporre in una serie di piccoli cartigli disposti poi in ordine apparentemente casuale: Animos amor/ si vestros/ regitur regat/ quo caelum/ hominum genus/ o felix.
Ripenso spontaneamente alla mia amata professoressa di latino del liceo e, ripassando a mente un poco di analisi logica e di grammatica latina, riesco a rimettere nell’ordine giusto i pezzi: O felix hominum genus, si vestros animos amor, quo caelum regitur, regat! La frase, scoprirò più tardi a casa, è del filosofo cristiano Severino Boezio ed è tratta dall’opera del 525 d.C. La consolazione della filosofia. Tradotta in italiano potrebbe suonare così: Oh felice il genere umano, se quell’amore che regge il cielo, regge anche il vostro animo!
Come ogni orologio astronomico, anche quello del Santo, segnando l’ora, invita dunque anche ad alzare gli occhi verso il Cielo, a con templare l’armonia in cui si muovono i due astri maggiori, il sole e la luna, e l’infinità dei pianeti e delle stelle. È questa una delle esperienze attraverso cui anche oggi l’essere umano giunge facilmente all’idea di Dio. L’infinità e l’armonia del cosmo non può lasciare indifferenti. Sotto un cielo stellato, come diceva il caro buon vecchio Kant, è davvero impossibile non porsi qualche domanda sull’origine e il senso della vita. Ma la frase di Boezio non solo in vita a riconoscere che vi è un ordine che regge gli astri celesti (come del resto suggeriscono sia la parola “cosmo” che il conce o di “universo”), ma identifica anche tale principio ordinatore con una forza che definisce “amor”. Non dunque il demiurgo di Platone o il Dio orologiaio, ma il Dio amore dei cristiani. E pare concludere: se anche gli uomini lasciassero che i loro cuori fossero guidati da questo stesso amore, anziché da passioni disordinate o desideri egoistici, essi vivrebbero finalmente in pace e in armonia, come il cielo e le sfere celesti.
L’uomo medievale, probabilmente meno moralista di noi e dotato di animo più contemplativo del nostro, non si fece problemi a porre un orologio all’interno di una chiesa. Prima che segnare il tempo dei mercanti, gli orologi scandirono nel XIV e XV secolo quello dei conventi e dei monasteri. Lo scorrere regolare e inesorabile dei minuti e delle ore non era solo una questione di quantità da misurare o un assillo contro cui lottare (come è invece purtroppo diventato per noi), ma forse il mistero più grande su cui riflettere e il più difficile da comprendere, come del resto ancor oggi è considerato il tempo dalla maggior parte dei filosofi e degli scienziati. Un mistero che può inquietare, ma che non cessa di meravigliarci ogni volta in cui ci fermiamo a contemplare il tramonto del sole, l’alternarsi delle stagioni, la ruota della vita, il succedersi delle generazioni.
Più sentiamo di far parte di qualcosa di più grande di noi, meno il pensiero della pochezza della sabbia contenuta nella nostra clessidra ci atterrisce. E ci si sorprende, trascinati da tali pensieri, che anche il solenne pontificale già sia terminato, vedendoci così di nuovo passare in processione sotto il grande orologio, in attesa di quella liturgia che, fuori del tempo e dello spazio, mai avrà fine.
Alessio Giovanni Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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