«Attorno a me c’è un trionfo di verde, tanta vegetazione e bambini che mi salutano. Per una volta sono io la ‘strana’, la bianca. Tra poco attraverserò un ponte, il Tosamaganga bridge; c’è un bel cielo terso, non ci sono più nuvole. In questo periodo ogni giorno nel giro di dieci minuti si passa dal sole alle nuvole, alla pioggia. Il sole sta tramontando».
Francesca Cera, 29 anni, è a piedi lungo la strada che dal suo alloggio porta alla città di Tosamaganga, in Tanzania, dove si trova l’ospedale in cui lavora. È uno dei 341 medici specializzandi italiani che, dal 2002, hanno lasciato l’Italia per intraprendere un’esperienza di lavoro con il progetto Junior Project Offi cer dei Medici con l’Africa Cuamm. È originaria di Malo, dove vive con il marito Michele, sposato tre anni fa. È arrivata nel Continente nero il 26 marzo.
Francesca che cosa spinge una giovane specializzanda in geriatria appena sposata a lasciare l’Italia per un’esperienza in Tanzanìa?
«Ho sempre saputo che avrei studiato medicina e che, un giorno, sarei partita per l’Africa. Non so spiegarlo bene. Lo sentivo dentro. Ho sempre avuto la curiosità di capire come si vive in questa parte di mondo che sembra così diversa da noi. Ci tenevo poi a partire con un po’ di bagaglio professionale, non da studente o da semplice volontaria. Ho quindi aspettato la specializzazione che ci consente sei mesi di formazione all’estero ».
Suo marito cosa dice?
«Mio marito mi conosce (ride), ha sempre saputo quali fossero i miei piani. Nonostante il lavoro all’ospedale di Padova viviamo a Malo. “Michi” ed io siamo molto legati alla comunità, abbiamo lì le nostre famiglie, i nostri amici, la nostra parrocchia».
Come si è avvicinata al Cuamm?
«Chi studia medicina a Padova non può non conoscere il Cuamm. Ci sono incontri, eventi, in collegio fanno una bellissima festa a maggio. Ho ascoltato alcune testimonianze, si parlava di Africa e di diritto alla salute. Piano piano mi sono affezionata alla loro missione».
L’ospedale di Tosamaganga dove si trova esattamente? Com’è strutturato?
«Si trova nella regione di Iringa vicino al villaggio di Ipamba. Siamo nel centro ovest della Tanzania, a circa 9-10 ore di autobus da Dar es Salaam la “finta” capitale, nel senso che uffi ciosamente lo è ancora. L’ospedale è di proprietà della diocesi di Iringa. Ci lavorano circa 150 persone tra cui medici del Cuamm e personale tanzano sia pagato dal Cuamm che dal Governo. È una struttura grande. Il problema è la mancanza di personale qualificato».
Ci spieghi meglio.
«Gli specialisti in questo momento sono quattro di cui tre del Cuamm: due dottoresse italiane (infettivologa e pediatra), un ginecologo tanzano pagato dal Cuamm e l’ortopedico che è un frate, capo dell’ospedale. Poi ci sono una serie di medici generici e una figura intermedia che è il ‘clinical officer’. Poi ovviamente ci sono gli infermieri. Noi specializzandi del Cuamm siamo in sei. Gli Operatori sanitari non ci sono».
Come non ci sono operatori sanitari?
«Al corso di formazione me l’avevano detto, però appena arrivata questa cosa mi ha impressionato. Qui in Tanzania tutta la parte dell’assistenza al paziente è a carico dei familiari: il cibo, l’igiene, qualsiasi cosa. Quando si entra in una stanza del reparto attorno al paziente ci sono sempre uno, due o tre familiari che hanno portato il pranzo, il sapone, un cambio. Spesso aiutano anche il paziente vicino di letto».
Lei di che cosa si occupa esattamente?
«Lavoro con la mia tutor, l’infettivologa, nell’ambulatorio delle malattie croniche: soprattutto diabete e ipertensione. In Africa si è sempre tanto parlato delle malattie infettive, dell’Aids, della tubercolosi della malaria, ma il realtà in questo momento si sta veramente assistendo ad un incremento esponenziale delle patologie croniche. L’ambulatorio è attivo tre giorni la settimana: visitiamo dalle 40 alle 50 persone al giorno. Gli altri due giorni vado in reparto, dove serve: c’è quello femminile, quello maschile e la ‘Intensive cure’ una specie di terapia intensiva, niente a che vedere con la nostra. Ci sono meno pazienti, ma c’è un’unica infermiera».
In ambulatorio come si prende cura dei pazienti?
«Li visitiamo, diamo la terapia, ma soprattutto li “educhiamo”. Nel senso che spieghiamo come comportarsi a casa. Cosa devono mangiare, l’attività fisica da fare. Il modello occidentale
della Coca-cola e del “grasso è bello” è forte. Le terapie sono limitate. La diffi coltà è far capire loro che si tratta di malattie croniche quindi che la terapia va mantenuta per tutta la vita. Per il diabete, ad esempio, abbiamo solo due farmaci. Qui tutta la sanità è a pagamento. Per adesso il primo pensiero che mi viene in mente è: ‘Quante cose potremmo fare in Italia per queste persone’. È un continuo confrontarsi con il ‘senso del limite’. Una famiglia deve decidere se fare un esame o mandare il figlio a scuola. In Italia ci dimentichiamo che, per quanto grandi, le risorse sono sempre limitate: se chiedo una tac per il paziente X la sto portando via al paziente Y, non sembra ma è così».
Che età hanno i suoi pazienti?
«Tutte le età. L’altro giorno è arrivato in ambulatorio un ragazzo di 35 anni con una brutta ipoglicemia (diabete 1, quello che necessità dell’insulina ndr) quindi con una possibile compromissione cerebrale. Molti pazienti impiegano ore a piedi per raggiungere l’ospedale, tanti non possono permetterselo. ‘Come possiamo aiutarlo?’ mi sono chiesta. Gli ho corretto la glicemia e siamo in attesa di vedere i danni al cervello, sperando non ce ne siano. Di più non potevo fare».
Altri episodi che l’hanno colpita?
«Ogni paziente in ambulatorio ha una scheda. Ad ogni visita il medico la porge al malato scrivendo quand’è la prossima visita. Spesso ti guardano perplessi come dire: ‘Ma io non so leggere’. Un’altra signora è arrivata con una malformazione del piede. Cammina appoggiando il dorso invece della pianta. La mia tutor le ha suggerito di andare ad Iringa dove c’è un ospedale più attrezzato. La donna ha alzato la testa e in swahili (la lingua ufficiale ndr) ha detto: ‘È già tanto che sono riuscita a venire qui, non posso permettermi di andare ad Iringa’. Dista una trentina di minuti di ‘bagiagi’, una motoretta».
Marta Randon