«Una volta si nasceva e si moriva. Oggi si muore quando il medico “desiste” dall’intervenire. La medicina ha la capacità di forzare il limite biologico della vita. Questo continuare a vivere per qualcuno diventa una cosa penosa. Il problema è: quando accettare che il dato biologico possa essere rispettato e arrivare serenamente alla morte?». Don Giuseppe Pellizzaro, Direttore dell’Ufficio per la pastorale della salute, va dritto al cuore del dibattito sul fine vita.
«Oggi – riprende don Giuseppe – la medicina ha delle possibilità che il paziente può non sentire appropriate. Magari dal punto di vista medico lo sono, ma il soggetto delle cure può affermare in coscienza “non mi sento di sostenere quello che mi proponete”. Il punto è che una certa mentalità individualista affida al soggetto il compito di decidere in maniera assolutamente autonoma, con il rischio che il medico diventi un soggetto passivo, un esecutore di quanto il paziente ha deciso. Il mio punto di vista è un altro: l’individuo è persona e la persona si comprende nella relazione. Alla fine è la persona che deve prendere la decisione su se stessa, coerentemente con la sua visione di vita e i suoi valori, ma questa decisione deve essere accompagnata e sostenuta perché la vita ha un significato positivo anche nel limite. Occorre un’alleanza terapeutica dove non ci sono solo il medico o il paziente che decidono da soli, ma il paziente assieme al medico e ai famigliari. Qui si inserisce il tema delle cure palliative».
Quello delle cure palliative è un argomento che salta sempre fuori parlando di “fine vita”. Perché?
«Le cure palliative non possono risolvere la totalità dei casi per i quali si richiede il suicidio assistito o l’eutanasia. Però l’idea è che sostenendo le persone con le cure palliative le si aiuta a non vivere la loro situazione in un modo disperato che potrebbe portare alla richiesta di farla finita. Il trattamento palliativo è un accompagnamento della persona e richiede una medicina sempre più personalizzata, che adatta i trattamenti tradizionali alla situazione del soggetto. È un tema tutto sommato recente, in Italia se ne parla dagli inizi degli anni ’80».
Quello che auspica però si scontra con un sistema sanitario che tende ad espellere il prima possibile il malato. È così?
«È vero, questo è il grosso problema attuale della sanità. L’ospedale è diventato un’azienda, riducendo i posti letto. Cronici e lungodegenti oggi vivono in casa di riposo o nelle abitazioni private, e sappiamo bene che il malato in famiglia crea grossi problemi. Anche per questo il sistema di cure palliative dovrebbe prendere più piede».
Perché spesso il tema delle cure palliative sembra antitetico a quello dell’eutanasia?
«Perché chi richiede il suicidio assistito o l’eutanasia li interpreta come un diritto del soggetto. Ma si ritorna al punto di partenza: il diritto di un individuo compreso come assoluto. Quando ha deciso, non puoi dirgli niente. Io invece parto dall’idea che l’individuo è relazione. Siamo invocazione di relazione. La mia vita non è indifferente a quella degli altri e viceversa. Per questo la mia vita può essere preziosa anche nel momento del limite. In fondo, le tre ore di Cristo sulla croce non sono state le più inutili della sua vita. C’è una dignità del vivere e c’è una dignità del morire. Per questo dobbiamo essere chiari non solo quando parliamo di eutanasia ma anche quando parliamo di accanimento terapeutico: sono immorali entrambi perché non riconoscono la morte come realtà che appartiene alla vita».
Ma se eutanasia e accanimento terapeutico sono i due estremi, c’è spazio per quello che viene chiamato “suicidio assistito” nella visione della Chiesa?
«Non ho mai trovato aperture, a parte alcune posizioni nella chiesa valdese in quanto sostengono che non si dà la morte a qualcuno che non la vuole o non la richiede. A me però sembra che così si lanci il sasso nascondendo la mano. Possiamo dire “Ti ho messo nelle condizioni di morire, poi sono affari tuoi”? Il discorso dell’indifferenza torna in modo pregnante. Fatico a comprendere questo atteggiamento, mi sembra una forma di falsa pietà dire “ti aiuto a farla finita”, anche se di fronte a certe sofferenze può essere comprensibile ed è per questo che occorre il palliativista. Le cure palliative eliminano le sofferenze fino alla sedazione profonda, che non è una forma di eutanasia o di suicidio assistito».
Fino a qui però abbiamo parlato di rifiutare delle cure. Ma quando si tratta di sospendere interventi già introdotti?
«È un argomento molto delicato. Se sospendendo il funzionamento di uno strumento già introdotto, ad esempio un respiratore, e la persona muore, è giusto sospenderlo? A mio parere, da un punto di vista morale decidere di non introdurre una strumentazione o decidere di sospenderne l’utilizzo, non cambia niente. Il problema è psicologico. Quello che è certo è che se ad un certo punto la strumentazione introdotta non ha portato risultati o la situazione si è aggravata, non sospendendo l’intervento creeremmo una umanità in parcheggio di morte».
Il caso di Eluana Englaro rientrava in questa casistica, giusto?
«Il problema del caso Englaro era giuridico. Il padre aveva chiesto di interrompere il trattamento, ma non esisteva una legge che consentisse di farlo».
Quindi non si trattava di una scelta moralmente sbagliata?
«A mio avviso no. Il problema è che tutta quella questione è stata affrontata in modo ideologico da chi chiedeva il riconoscimento giuridico per intervenire in quel modo. Una impostazione ideologica che purtroppo ha trovato una risposta altrettanto ideologica da parte della Chiesa. Dal punto di vista morale, la questione andava affrontata in modo diverso, perché la morale è la ricerca del bene ma non in astratto».
Ci sono più domande che risposte quando si affrontano questi argomenti.
«Sicuramente. E da un punto di vista cristiano, se crediamo nella vita eterna, dobbiamo rispettare la vita e la morte. L’idea che la Chiesa voglia l’accanimento terapeutico partendo dalla sacralità della vita non è vera».