I casi in tempi recenti sono pochi e ben conosciuti: Milingo nel 2006, Lefebvre nel 1986, il vietnamita Thuc nel 1976. Sono i vescovi cattolici scomunicati dalla Santa Sede per scisma, cui si aggiunge, dallo scorso 4 luglio, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò.
Il delitto di scisma, nell’ordinamento giuridico della Chiesa Cattolica, si configura come particolarmente grave e, insieme all’eresia e all’apostasia, porta dritti alla scomunica latae sententiae. Del resto è proprio alla comunione ecclesiale che lo scismatico, con le sue azioni e le sue dichiarazioni, attenta, imprimendovi una ferita profonda che rischia di diventare insanabile, fonte di scandalo e disorientamento per i fedeli.
Ormai da tempo Viganò si lasciava andare ad esternazioni gravi che fomentavano divisioni e fazioni, trovando una sponda in quella minoranza aggressiva comunemente definita “ultra-tradizionalista” che ha fatto, in una visione distopica e paranoica della realtà, di papa Francesco il suo peggior nemico e di papa Benedetto l’ultimo pontefice legittimo. Il Dicastero per la Dottrina della Fede, che forse aveva sperato in un ravvedimento del porporato o almeno in un suo venir a più miti consigli, non poteva più tergiversare ed è dunque intervenuto.
La parabola di mons. Viganò appare tristemente emblematica delle pericolose strettoie mentali in cui anche un uomo di fede può infilarsi, forse ammaliato dal potere, o forse trovandosi coinvolto in giochi e meccanismi, a volte – è necessario dirlo – non proprio esemplari neppure in seno a Santa Madre Chiesa. Nato a Varese nel 1941 da una famiglia colta e borghese, Carlo Maria Viganò, prete dal 1968, svolge una lunga carriera diplomatica a servizio della Santa Sede, distinguendosi effettivamente per zelo e rettitudine morale. Dopo svariati incarichi in giro per il mondo, approda a Roma dove nel 2009 diviene Segretario del Governatorato della Città del Vaticano. In un paio d’anni mette in ordine i conti della Santa Sede, ma forse infastidisce anche qualcuno. Di fatto dopo due anni arriva la nomina a Nunzio Apostolico negli Stati Uniti.
Quella che ai più appare come una promozione e un segno di apprezzamento viene dallo stesso Viganò letta invece come il classico promoveatur ut amoveatur e dunque come una punizione. Da lì in poi il monsignore si incattivisce sempre di più. Il suo nome appare tra i “corvi” di Vatileaks e soprattutto inizia una sua personale caccia alle streghe tra l’episcopato statunitense, segnato in quegli’anni dagli scandali legati al cardinale di New York McCarrick, muovendo accuse pesanti e mal documentate ad altri prelati e soprattutto tirando in causa gli stessi pontefici che negli anni, pur sapendo, avrebbero, a suo dire, taciuto.
Rientrato in Italia nel 2016, Viganò fa parlare sempre più spesso di sé, assumendo posizioni negazioniste rispetto al covid, esprimendo il proprio supporto a Trump e denunciando l’esistenza di un complotto massonico volto ad affermare un non meglio precisato “nuovo ordine mondiale”. Il culmine della follia si raggiunge quando il monsignore definisce papa Francesco “servo di satana”, il Concilio Vaticano II “un cancro” e il percorso sinodale “la sua inevitabile metastasi”. In questo arroccarsi su posizioni sempre più farneticanti, è facile riconoscere purtroppo una colossale operazione di razionalizzazione di questioni personali irrisolte e proiettate distruttivamente ad un livello generale, ma anche, e questo è forse l’aspetto più paradossale della vicenda, una totale mancanza di fede, quella stessa fede che Viganò dice a parole di voler difendere, ma che non traducendosi coerentemente nell’oboedientia et pax di roncalliana memoria, smentisce alfine impietosamente sé stessa.
Alessio Graziani