La Play Station ha compiuto trent’anni e l’ultima versione della celebre consolle che ha cambiato il mondo dei videogiochi finirà sicuramente sotto l’albero di Natale di molti. E non nascondiamoci dietro a un semplice “ai miei figli/nipoti regalo un maglione o un libro, è più sano”, perché se in Italia 10 milioni di persone giocano ai videogame almeno una volta alla settimana, vuol dire che questa potente industria dell’intrattenimento ci tocca tutti, Play Station o meno.
Dal 2020 ad oggi, il mercato globale dei ricavi dei videogiochi ha raggiunto i 196 miliardi di dollari, un sorpasso netto rispetto allo streaming video (114 miliardi di dollari), allo streaming musicale (38 miliardi di dollari) e agli incassi dei cinema globali (34 miliardi di di dollari). Nel mondo ci sono circa 3,2 miliardi di giocatori, il 50% in Asia. Tornando all’Italia, su 10 milioni di giocatori il 70% ha più di 18 anni e le fasce d’età più rappresentate sono i 15-24enni (3,2 milioni di persone) e i 45-64enni (3,1 milioni). Da notare che questi “pionieri” del mondo videoludico hanno visto muovere i primi passi a personaggi come Super Mario o Zelda, tutt’oggi amatissimi e presenti nelle consolle di tanti ragazzi e ragazze. “Ragazze” è un’altra faccia del fenomeno da tenere presente perché se una volta l’immagine del videogame era associata ai maschi, oggi le donne sono quasi la metà dei giocatori. Ma ripartiamo da dove abbiamo iniziato, ovvero dall’avvento della Play Station «paragonabile all’arrivo dell’I-Phone nel mondo della telefonia». A dirlo è Michele Marangi, media educator e docente dell’Università Cattolica di Milano. «La Play Station ha introdotto un grande cambiamento tecnologico e un livello di immersività sempre forte, sdoganando videogiochi sempre più complessi a livello grafico, narrativo e della gamma della giocabilità. Oggi le Play Station sono macchine potentissime con le quali si può fare di tutto, non solo giocare».
Per comprendere l’impatto che stanno avendo i videogame sulla nostra società è utile partire dai social network: «Il loro successo è determinato dalla sensazione che trasmettono di essere in qualche modo “protagonisti”, ma questa idea era stata sdoganata già da tempo proprio dai videogame – spiega Marangi -. L’dea si è talmente evoluta che i videogiochi ormai sono utilizzati anche come strumenti di apprendi-mento. Un gioco famosissimo tipo “Minecraft” (il più venduto al mondo, ndr) che per semplificare è di fatto un grande scatolone digitale mattoncini Lego, permette di sviluppare competenze nel pensiero computazionale e capacità organizzativa. Ne è stata sviluppata anche una versione da utilizzare a scuola».
Da oltre 15 anni siamo tutti dentro al mondo digitale, ma a pochi viene da chiedere ai propri figli ‘a cosa stai giocando?’. Questa è la chiave di volta.
Giochi “buoni” e giochi “meno buoni”
Per orientarsi nell’universo dei videogiochi e nella capillarità della loro fruizione (smartphone, pc, tablet, o consolle non importa, arrivano dappertutto), è bene comprendere quali sono i criteri che fanno di un gioco un “buon videogioco” o, al contrario, qualcosa di potenzialmente dannoso. «Il buon gioco – spiega Marangi – riesce ad unire in maniera equilibrata e intelligente la parte delle meccaniche ludiche, ovvero la “giocabiltà” (ad esempio organizzazione dei comandi di gioco, combinazioni di tasti, strategie per completare le missioni, funzionamento dei joystick, ndr) con le dinamiche narrative. I giochi meno interessanti fanno compiere le stesse azioni senza che il giocatore investa le sue competenze o ne sviluppi di nuove. Ne sono un esempio i “giochi interstiziali”, quelli che si fanno sullo smartphone tanto per perdere tempo, ripetitivi, poco intelligenti. Un gioco ben fatto, invece, consente la capacità di elaborare strategie non canoniche, di sperimentare, di sviluppare logiche collaborative con la macchina o con altri giocatori (giocare in “multiplayer”, ovvero in rete con altri giocatori è diventato un fatto normalissimo, ndr) e, soprattutto, incoraggia a fare errori. Sbagliare, nei videogiochi, è premiante perché deve infonderti il desiderio di tornare a giocare. E il gioco, da sempre, è apprendimento. Tutto questo, purtroppo, è ben diverso dalla sensazione di frustrazione che spesso il mondo adulto suscita nei giovani di fronte ai loro errori».
Uno dei rischi che Marangi vede, a parte quello di «stare sempre e solo nei giochi» è quello di «fare giochi poco impegnativi, assolutamente monotoni e sempre gli stessi. Purtroppo il mercato premia giochi sicuri di fatturare e un po’ meno i prodotti coraggiosi di case produttrici indipendenti, che però possono contare su un buon numero di appassionati». Ben più grave, per Marangi «è il pericolo delle infiltrazioni del gioco d’azzardo e di quei giochi che offrono la possibilità di acquistare miglioramenti o abilità utilizzando denaro reale. Qui non viene premiata la capacità del giocatore o la strategia, al contrario ».
Di fronte ad un mondo adulto spesso molto preoccupato da questo fenomeno (ma non del tutto “incolpevole” rispetto alla sua diffusione, visto che in Italia, secondo Save The Children, più del 30 per cento dei bambini tra i 6 e i 10 anni utilizza tutti i giorni uno smartphone sviluppando però scarse competenze digitali), secondo Marangi la parola chiave è proprio “game”: «Per molti adulti il videogioco è una cosa strana, carina, un po’ scema, ma divertente. Per questo viene sottovalutato. Ormai da 15 anni siamo tutti dentro al digitale ma a pochissimi viene da chiedere ai propri figli “a cosa stai giocando?”. La chiave di volta deve essere questa. Abbiamo bambini e bambine molto competenti, ma noi adulti vediamo solo il problema del “tempo”, perdendo il motivo per cui giocano: si divertono. E questa è una situazione potente per pensare, ragionare e crescere».
«Ho imparato a giocare guardando mio papà»
Serena Cortese, 18 anni, è una studentessa dell’Itc Einaudi di Bassano con la passione per i videogiochi. «Ho iniziato ad entrare in questo mondo alle medie, guardando gameplay su YouTube (partite giocate di altri giocatori, ndr) e mio papà che giocava a Tomb Raider con la prima Play Station. Il mio primo gioco è stato Minecraft, ora mi sono appassionata a Genshin Impact, un gioco fantasy open world (ovvero un gioco in cui le esplorazioni del mondo in cui è ambientato sono pressoché illimitate) ».
Serena, dal 2022, partecipa ad un progetto della Cooperativa Adelante di Bassano chiamato Laboratorio 5D. «Ogni anno – spiega il coordinatore Enrico Botteon – formiamo dei ragazzi di quinta superiore perché possano fare da ‘player’, ovvero da peer educator (educatori alla pari), alle classi di ragazzi più giovani sui temi delle tencologie digitali». Dopo la pandemia, infatti, Adelante ha individuato nel digitale un ambito che necessitava di progetti educativi specifici. «Il Laboratorio 5D – spiega Botteon – offre alle classi di terza media e dei primi due anni delle superiori cinque laboratori: videogiochi, archeologia digitale (dalla macchina da scrivere all’Intelligenza Artificiale), smontaggio e rimontaggio, identità digitale e, infine, disconnessione, con attività di meditazione e respirazione diaframmatica ». Ogni anno il progetto coinvolge una ventina di classi e Serena fa parte dei ‘Player’ che guidano i ragazzi nell’espereinza videoludica. «Ne arrivano di tutti i tipi – racconta -, chi non ha mai visto un videogioco, chi è esperto e non ha bisogno di suggerimenti e chi è abituato a giocare solo sul telefono ». Il laboratorio propone esperienze multi giocatore su dispositivi diversi: X-Box, Nintendo Switch, un pc portatile e uno fisso, perfino un cabinato da bar pieno zeppo di giochi ‘vintage’. La Play Station? «Ne abbiamo, ma i ragazzi ci lavorano nel laboratorio sull’archeologia digitale – conclude Serena -. Oggi le generazioni più vecchie credono che i videogiochi siano cose da maschi, ma non è così. Sono un passatempo per tutti».
E non va sottovalutato il potenziale di inclusione sociale. Sempre Adelante segue un collettivo di videogiocatori che coinvolge in particolare giovani ‘neet’. «Spesso a bloccare queste persone è la convinzione di non possedere le competenze che vengono loro richieste – spiega Enrico Botteon -. Attraverso il gioco è possibile abbattere questo muro, oltre a sviluppare specifiche soft skills che incoraggiano i ragazzi a metterle in gioco anche in altri ambiti».
Andrea Frison
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