Richard è ghanese. È arrivato da bambino in Italia con la sua mamma. Del Ghana non ha ricordi. Ha frequentato le scuole italiane dall’asilo fino al diploma in un istituto tecnico. Richard è cattolico, ha partecipato al catechismo, ha fatto il chierichetto in parrocchia tutte le domeniche fino ai 18 anni, chiedendosi perché la maggior parte dei suoi compagni non venisse più in chiesa.
A 18 anni Richard si è sentito rifiutato dal Paese in cui è cresciuto perché, diventando maggiorenne, ha visto messi in discussione molti dei suoi diritti e la procedura indicatagli per rinnovare il permesso di soggiorno e sperare di ottenere finalmente la cittadinanza gli è sembrata costosa, complessa e finanche lesiva della sua dignità. Richard ha deciso così di raggiungere il papà a Londra dove ha trovato migliori opportunità per il suo futuro. Gemma negli anni ’50 dall’Italia è migrata con il marito in Canada dove hanno lavorato per qualche decennio. Appena arrivati, l’Ufficio immigrazione mise loro tra le mani un documento di identità con stampigliato, a fianco dei loro dati anagrafici, un timbro dal suono accogliente: “New Canadian”, nuovi canadesi. Mentre erano in Canada nacquero due figli che ebbero subito, in virtù delloius soli vigente in quel Paese, la cittadinanza canadese. Gemma oggi ha 94 anni, vive in una casa di riposo in provincia e quando le chiedi del Canada si illumina perché quelli, dice, “sono stati gli anni più belli della mia vita”. Il riconoscimento preventivo di tutti i diritti, a patto di non sgarrare contro le leggi del Paese che li accoglieva, li fece evidentemente tirare fuori il meglio di loro stessi. Di storie così potremmo raccontarne molte. Storie di migranti e di “stranieri” che cercano una patria, un luogo dove stare bene e sentirsi a casa. Storie che ci interrogano e che forse dovremmo avere maggiormente presenti quando discutiamo, spesso su basi meramente astratte se non del tutto ideologiche, sul valore della cittadinanza e dei requisiti necessari per ottenerla. In Italia, come in quasi tutti i Paesi europei ad esclusione della Francia, la cittadinanza è prevalentemente regolata dal principio delloius sanguinis: un bambino è italiano solo se è figlio di cittadini italiani. I bambini nati in Italia da genitori stranieri non sono cittadini italiani. In base al diritto internazionale, i loro diritti sono tutelati in quanto minori, ma, una volta compiuti i 18 anni, devono attivare un iter burocratico per vedersi riconosciuta quella cittadinanza che magari già davano per scontata. La situazione è ancora più complessa per i minori arrivati in Italia da altri paesi: la cittadinanza può essere ottenuta in questo caso, al raggiungimento della maggiore età, solo attraverso un processo di “naturalizzazione” che, come accaduto a Richard, risulta ostico e può apparire ‘ingiusto’ a molti giovani migranti che, pur essendo cresciuti qui, a 18 anni si sentono trattati dallo Stato come ‘stranieri’. Lo ius scholae, di cui tanto si parla in questi giorni per una proposta che arriva un po’ a sorpresa da Forza Italia, vorrebbe, seppur in modo imperfetto, porre un correttivo alle storture del sistema attualmente vigente, permettendo ai bambini figli di migranti (sia quelli nati in Italia che quelli arrivati nell’infanzia) di acquisire automaticamente la cittadinanza italiana dopo aver frequentato regolarmente le nostre scuole per un certo numero di anni. Il provvedimento, guardato con favore anche dalla Chiesa, non solo sembra meglio tutelare i ragazzi cresciuti tra noi, evitando di farli sentire stranieri e indesiderati proprio nel luogo dove sono cresciuti, ma favorirebbe di certo in questo modo anche maggiore integrazione e amicizia sociale.
Alessio Graziani