Lo chiamano push-back, “respingimento”. È un termine, o meglio una pratica per bloccare i flussi migratori, all’ordine del giorno lungo la cosiddetta rotta balcanica. Siamo al confine tra la Croazia e la Bosnia, l’ultimo tratto di una delle vie più percorse dai migranti che cercano di raggiungere a piedi l’Europa. Afghanistan, Siria, Pakistan, Algeria, Egitto e Marocco sono i Paesi da cui provengono. Francia, Germania, Italia e Spagna quelli che vorrebbero raggiungere. Per chi affronta questo viaggio e riesce ad arrivare fino al confine con la Croazia “respingimento” di fatto significa violenze, soprusi, diritti umani calpestati a causa dei blocchi delle forze di polizia di frontiera. Ma anche a causa delle condizioni degradanti che migliaia di migranti sono costretti a sopportare in attesa di riuscire a raggiungere quell’Europa che dista pochi passi.
Di ciò che accade lungo questa parte della rotta balcanica ne abbiamo parlato con il fotoreporter Michele Lapini, che ha documentato una situazione drammatica. Una situazione che se trova abbastanza eco nei media, al contrario non trova posto a sufficienza nell’agenda delle istituzioni. Lapini è arrivato in Bosnia all’inizio dello scorso dicembre giusto in tempo per lo sgombero del campo di migranti di Vucjak, vicino alla città di Bihać, a 8 chilometri dal confine croato. Non riconosciuto formalmente, al momento del suo smantellamento ospitava all’incirca 700 persone. Da tutti soprannominato “jungle”, un nome che lascia ampio spazio alla fantasia, il campo era stato costruito sui resti di una vecchia discarica di prodotti chimici per volontà delle autorità locali con lo scopo di allontanare i migranti da Bihać. Una tendopoli, tra il pantano e la miseria più nera, più volte sotto accusa da parte delle organizzazioni umanitarie per le condizioni di vita disumane. Oggi quel campo, che assomigliava più all’inferno in terra, non c’è più. Ma sono rimaste le persone che ogni giorno cercano di raggiungere l’Europa. Arrivano lì dalla Grecia, attraversando la Macedonia, la Bulgaria, la Serbia e il Montenegro. Fino alla Bosnia per tentare di arrivare in Croazia, “porta” dell’Ue.
«Dopo lo sgombero del campo di Vucjak la situazione della rotta balcanica non è cambiata. La jungle era solamente un punto intermedio lungo una via, dove i migranti sostavano. Sono stati trasferiti, a bordo di autobus, nelle zone più interne del Paese. Verso Sarajevo e Mostar in dei centri appositi, ma sempre precari – dice Lapini -. Respingimenti o meno, questa gente andrà avanti. Certe persone non le scoraggi, vogliono una nuova vita. Ne hanno bisogno e continueranno a cercarla». Malgrado l’accordo firmato da Ue e Turchia nel 2016 per interrompere i flussi migratori, ogni settimana migliaia di persone continuano a intraprendere la rotta balcanica. Bihać è l’ultima città bosniaca prima del confine con il Vecchio continente ed è proprio qui che sorge uno dei centri dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (IOM). A Bihàć come a Velika Kladusa, altra piccola cittadina di passaggio dove si trova un altro centro dell’Iom, è impossibile non vedere i migranti. Oggi la Bosnia è una via di transito forzata per chi fugge dal proprio Paese alla volta dell’Europa essenzialmente per due motivi. Il primo riguarda i 175 chilometri di muro lungo il confine ungaro-serbo, eretto da Orbàn per scoraggiare il passaggio per l’Ungheria e il secondo è la pericolosità della rotta del Mediterraneo, considerate le dure repressioni alla frontiera libica. Repressioni che non vengono risparmiate lungo il confine nord ovet tra Bosnia e Croazia. I migranti sono costretti ad attraversare lunghi tratti boschivi cercando di scampare alla polizia croata, finanziata con milioni di euro dall’Ue. Tra i metodi di controllo ci sono i mezzi più moderni, come droni o rilevatori di calore, per avvistare e fermare i migranti. Fermarli è l’obiettivo, anche con vere e proprie modalità di tortura.
«Non esiste tutela dei diritti per queste persone. I respingimenti si verificano illegalmente, in maniera arbitraria e soprattutto violenta da parte della polizia. Ogni volta che i migranti vengono respinti vengono picchiati, presi a manganellate, derubati, gli viene bruciato il cellulare, vengono spogliati delle scarpe o del giubbotto, e rispediti in Bosnia – incalza Lapini -. .Questa è una situazione ampliamente documentata e denunciata. Sembra, però, che parlarne abbia una sorta di effetto anestetico sulle persone. Dopo un po’ diventa qualcosa di normale. Dovrebbero essere i governi a cambiare le proprie politiche. Quello che fa la polizia croata lo fa per conto dell’Unione Europea e, quindi, anche per conto dell’Italia». Per indicare il passaggio dalla Bosnia alla Croazia i migranti usano ironicamente il termine “the game”, il gioco. Lo chiamano così per la difficoltà che comporta passare la frontiera, ma soprattutto per il gran numero di volte che ci provano prima di riuscirci. Se la polizia croata li intercetta è “game over” e così vengono rispediti in Bosnia. “Il gioco” ricomincia da capo in una sorta di amaro “ritenta, sarai più fortunato” (forse). Molti migranti, nel frattempo, si stabiliscono in prossimità del confine in alloggi di fortuna come ex fabbriche o case abbandonate. «Durante il reportage ho conosciuto un gruppo di ragazzi dal Pakistan, che avevano percorso la rotta assieme. Tutti erano stati respinti una decina di volte dalla polizia croata. Hanno creato una sorta di piccola comunità vicino a un fiume, in attesa di riprendere il viaggio con temperature più calde. E a loro si sono aggiunti anche altri respinti. Ora il flusso dei transiti è diminuito a causa delle rigide condizioni meteo, che complice la neve rendono ancora più pericoloso mettersi in cammino» conclude Lapini che con il suo lavoro ha documentato un “gioco” in cui il premio è la vita.