Gli italiani a Gaza, in questo momento, si contano sulle dita di una mano e una di loro è vicentina. Stefania Rigotto, 41 anni e originaria di Montecchio Maggiore, dallo scorso gennaio lavora per la United Nations relief and works agency for palestine refugees in the near east (Unrwa), l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Stefania si trova a Rafah, città al confine con l’Egitto nota in queste settimane per il celebre “valico” che consente agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia di Gaza, bombardata, assediata e invasa dalle truppe israeliane all’indomani degli attacchi di Hamas in Israele, lo scorso 7 ottobre.
«Gli uffici dell’Unrwa hanno sede a Gaza City – racconta Stefania -. Il 9 e 10 ottobre, quando sono iniziati i bombardamenti, siamo stati avvisati per tempo e ci siamo rifugiati in un bunker, dove siamo rimasti per un giorno e una notte. I bombardamenti sono stati molto intensi, il nostro edificio ha subito danni gravi. Non è stato bello. E non oso immaginare cosa ha vissuto chi non ha potuto mettersi al riparo. Il 12 ottobre abbiamo ricevuto l’ordine di evacuare Gaza City. E così ci siamo trasferiti a Rafah, dove abbiamo continuato ad essere operativi».
Da allora i bombardamenti sulla striscia sono continuati incessantemente. Il 12 novembre Israele ha dato inizio all’invasione con truppe di terra. Teatro delle operazioni sono il nord della Striscia e Gaza City. A dividere il sud della Striscia dal nord invaso dalle truppe israeliane c’è un fiume, chiamato Wadi Gaza, nei pressi del quale i soldati israeliani hanno realizzato un check point.
Pochi giorni fa, con un significativo lavoro di mediazione statunitense, è stata concordata una tregua per consentire scambio di prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani catturati nel corso del raid di Hamas.
«La speranza è non solo che la tregua venga prolungata ma che si arrivi ad un cessate il fuoco e che la guerra finisca – racconta Stefania -. La gente è stremata, non ce la fa più. Il primo giorno di tregua molte persone hanno cercato di tornare alle loro case nel nord della Striscia, ma i soldati del check point gli hanno sparato contro. Non è possibile tornare. Noi stiamo approfittando della tregua per fare arrivare aiuti umanitari al nord. Ci sono centinaia di migliaia di persone che non hanno assolutamente niente. Tutte le infrastrutture sono state bombardate, non c’è acqua né cibo, e a quasi due mesi dall’inizio della guerra la situazione è peggiorata».
Lungo il principale asse viario che collega Gaza da nord a sud, in determinati orari Israele consentiva ai palestinesi di fuggire dalle zone di combattimento. «Le immagini mostravano una marea di gente che camminava – racconta Stefania -. Dai profughi abbiamo saputo che molti familiari sono stati arrestati durante il viaggio e non hanno più saputo niente di loro. Ci raccontano immagini truci di cadaveri per strada, decomposti o carbonizzati». Le cifre ufficiali parlano di quindicimila vittime palestinesi dall’inizio del conflitto, «ma tenere la conta dei morti è diventata impossibile – riferisce Stefania -. Si stima che almeno altre 6 mila persone siano rimaste sotto le macerie. E che il 70% dei morti siano donne e bambine». Complessivamente, infatti, la Striscia di Gaza conta poco più di 2 milioni di abitanti, per metà minori, che vivono in una prigione a cielo aperto. «Quando sono arrivata qui la prima volta le cose apparivano normali – racconta Stefania -. Si può dire che tutto scorreva normalmente. Gli uffici dell’Unrwa erano vicini all’università, una zona dove si potevano trovare caffè, ristoranti, gelaterie… Inoltre Gaza ha un bellissimo lungomare, dove si può passeggiare. Ma per i palestinesi uscire da Gaza è molto difficile. Alcuni di loro hanno parenti in Cisgiordania che non vedono da decenni. La gente si sente chiusa in una prigione, e questo ha effetti sulla salute mentale. Molti giovani si suicidano. I tassi di povertà e di disoccupazione sono altissimi, terminata l’università i giovani non trovano lavoro, a meno che non lavorino per l’Unrwa». L’agenzia Onu, infatti, gestisce a Gaza 188 scuole primarie e secondarie, 22 cliniche e tutta una serie di servizi pubblici, assistenziali, sociali, igienico-sanitari. Complessivamente, l’agenzia dà lavoro a circa 13 mila persone tra insegnanti, educatori, medici, infermieri, assistenti sociali e impiegati.
«Tra di loro ci sono già state 108 vittime – racconta Stefania -. Ogni giorno raccogliamo storie tristissime di colleghi che hanno perso qualche parente. Intere famiglie sono sparite».
Gli sfollati che sono riusciti a stabilirsi a sud del Wadi Gaza sono centinaia di migliaia. «Vivono nelle scuole o per strada, stanno nascendo vere e proprie tendopoli – racconta Stefania -. Cerchiamo di dare un minimo di aiuto ma non ci sono i mezzi per sostenere tutte queste persone. In una nostra scuola, che può ospitare al massimo 2 mila persone, attualmente ne ospitiamo 6 mila. In tutta la struttura ci sono solo sei bagni. Qui comincia a fare freddo, piove, la gente non ha niente per coprirsi, perché è scappata dalla guerra letteralmente senza niente».
Stefania Rigotto ha iniziato a fare l’operatrice umanitaria 15 anni fa. È stata in Nigeria, Ciad, Tanzania, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Costa d’Avorio, Siria. Ma non si è mai trovata in un conflitto come quello scoppiato il 7 ottobre. «Da settimane dormo per terra, condivido una stanza piccolissima con altre cinque persone. Siamo vicini alla costa. Ci sono stati giorni in cui le navi israeliane hanno bombardato la Striscia dal mare. Un’abitazione a 150 metri dalla nostra è stata colpita. Non è stato bello. Eppure per noi le cose sono più facili di quanto lo sono per i palestinesi».
Andrea Frison