Si vis pacem para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra) affermava lo scrittore romano Vegezio vissuto tra il IV e il V secolo. Se da un certo punto di vista questa può sembrare una affermazione antica, adatta per esercitare nelle traduzioni un liceale, dall’altra parte ci accorgiamo che oggi, in realtà, questa logica ancora rimane sottesa a tante grandi affermazioni sulla Pace.
La storia recente ci mostra come ancora oggi la potenza nucleare di una nazione sia giustificata proprio dal fatto che solamente una manifestazione di tale forza può preservare la pace, intesa come assenza di guerra e di scontri. Donald Trump durante il suo mandato presidenziale molte volte ha parlato in questo modo circa la situazione in Medio Oriente: solo un corretto rapporto di forze in campo può produrre la pace che invece le risoluzioni dell’Onu non hanno mai ottenuto. Allo stesso tempo in altre occasioni molti appelli alla “Pace” promossi da chi comanda sono stati giudicati come un appello all’obbedienza, al mantenimento dello stato di cose esistente. La pace talvolta è stata insegnata in termini di “non ribellione” ed il termine – in quest’accezione – è stato ampiamente usato anche dai Romani.
Nel testo dell’enciclica Fratelli Tutti Papa Francesco sfugge dall’ambiguità di queste due prospettive per proporre un punto di vista diverso. Innanzitutto richiama il necessario rapporto con la verità storica delle vicende umane che hanno portato a situazioni di scontro, guerra e violenza. Lo sforzo per un cammino di pace può nascere solo dalla capacità di guardare in faccia alla realtà così com’è, senza sottrarsi alle responsabilità e alla necessità di giudicare il tutto con la lente della misericordia. Parlare di Pace allora significa mettere in piedi un cammino lungo e faticoso, che richiede tempo, energia e uomini e donne disponibili a essere “artigiani della pace”: si tratta cioè di impegnarsi ad accogliere ciascuno come soggetto importante, con una identità da salvaguardare in relazione con l’identità e la storia dell’altro. Uomini e donne che si impegnano concretamente nel tessere relazioni di accoglienze e rispetto da soli non bastano: occorre anche una “architettura della pace” sostenuta da tutti gli enti statali, economici, religiosi e sociali che si trovano coinvolti nel cammino.
Ecco allora che la pace, nella prospettiva della Fratelli Tutti, non è mai un punto di arrivo pienamente raggiunto ma un percorso continuamente in essere, sempre attento ad accogliere e perdonare, a richiamare e chiedere rispetto come accade all’interno di una famiglia. Come in ogni famiglia umana si vive quotidianamente l’esperienza del confronto, dello scontro e dell’accoglienza delle reciproche diversità, così dovrebbe essere anche per la grande famiglia umana. Entra in gioco a questo punto anche una riflessione sul tema del perdono, tema che merita una trattazione a sé stante ma necessaria in un cammino di pace autentico.
Dalla lettura dell’enciclica emerge perciò che Pace diventa un altro degli aspetti necessari per descrivere la realtà della fraternità tra gli uomini. Pace inoltre non come uno punto di arrivo ma piuttosto come un cammino costantemente alla ricerca di nuovi equilibri, un cammino reso possibile da uomini e donne che, illuminati dal Vangelo, vivono il servizio dell’artigianato della pace, accompagnato da scelte politiche ed etiche precise. Per Papa Francesco la pace perciò non può mai essere la descrizione di una situazione di immobilità ma un cammino e un nuovo punto di vista con il quale guardare alla storia degli uomini. Nel provare ad immaginare l’atteggiamento che potrebbe avere oggi un “artigiano della Pace” mi balza alla mente il finale del libro di Italo Calvino “Le città invisibili”, il finale del dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan: “E risponde Marco Polo: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Pace inoltre come sogno di un mondo che possa essere quello che è chiamato ad essere, come dice Fabrizio De Andrè nella sua celebre canzone “La Guerra di Piero”. Un mondo che risponde alla sua vocazione di casa per tutti, culla della bellezza, dell’amore e della vita e non spettatore di scelte di morte: “Lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati, non più i cadaveri dei soldati, portati in braccio dalla corrente”.