Direttore artistico di Poetry Vicenza, e docente di letteratura inglese e post-coloniale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Marco Fazzini è poeta, critico e traduttore. Tra le sue opere recenti ricordiamo i volumi d’interviste “Conversations with Scottish Poets” (2015) e “The Saying of It” (2017), e uno studio sulla canzone e la poesia per la libertà, “Canto un mondo libero” (2012). Ha tradotto, tra gli altri, Philip Larkin, Norman MacCaig, Hugh MacDiarmid, Charles Tomlinson e Douglas Dunn. Le sue ultime sillogi di poesia sono “24 Poems” (2014) e “Riding the Storm” (2016). Lo abbiamo intervistato in occasione degli ultimi eventi di Poetry Vicenza, una rassegna che gode ormai, in Europa, d’una notevole visibilità, grazie alle segnalazioni a Madrid, Struga, Rotterdam, ecc. La recente partecipazione di Fazzini a una tavola rotonda in Nicaragua, in quello che sembra essere uno dei principali raduni di poeti, assieme ad altri sette direttori di festival nel mondo, ci indica che a Vicenza si sta costruendo qualcosa di unico, culturalmente alto e duraturo.
Il premio Nobel 2016 per la letteratura a Bob Dylan ha provocato varie polemiche, soprattutto interrogativi se fosse appropriato dare quello che è considerato il massimo riconoscimento mondiale nel campo letterario a un cantante, e se le sue canzoni fossero poesia, e quindi corpo della letteratura. Di recente poi la cantante americana icona del rock, ma anche compositrice, poetessa, fotografa e scrittrice Patti Smith ha ricevuto a Parma la laurea magistrale ad honorem in Lettere Classiche e Moderne per la qualità poetica intensamente visionaria delle sue canzoni. In Poetry Vicenza 2017 ci sono vari appuntamenti che mettono insieme musica e poesia. Secondo lei qual è il legame tra musica rock, pop e poesia?
«Ho cominciato a insegnare le canzoni di Bob Dylan già diversi anni fa nei miei corsi di specialistica a Ca’ Foscari e, ora, anche quelli che vedevano quest’apertura con un certo imbarazzo, si sono dovuti chiedere chi sia e cosa abbia scritto questo fantomatico Bob Dylan. Strano a dirsi, ma molti nell’ambito dell’accademia non hanno mai seguito la musica rock, o pop, anche se immagino abbiano vissuto da giovani gli anni sessanta e i settanta. Personalmente, avrei preferito il Nobel a Leonard Cohen che, come è noto, ha iniziato la sua carriera come romanziere e come poeta, prima di essere stato spinto da Judy Collins sopra a un palco a cantare le sue canzoni. Il Nobel a Dylan lo giustifico più per il suo lavoro linguistico sull’inglese americano che sul lavoro strettamente metaforico o mitico, al quale Cohen ha dedicato maggiore attenzione. Il premio è comunque un riconoscimento a tutta una generazione di artisti che alla musica sono approdati dopo lunghe letture dei classici, e un percorso di formazione non superficiale, personaggi ai quali dobbiamo riconoscere una musicalità che ha aiutato sia la cantabilità sia la popolarità della loro scrittura».
Se partiamo dal testo poetico possiamo dire che il movimento è quello delle parole verso la musica, ma possiamo anche considerare che un movimento inverso dalla musica verso il testo poetico come le ricerche di Jack Kerouac con il jazz e di Garcìa Lorca con il “Cante Jondo”, C’è qualcosa di analogo nella musica rock o pop?
«La poesia, si sa, nasce con la musica, si permea di musica, vive grazie alla memoria musicale di lunghe strofe poetiche e poemi narrativi, canzoni, sonetti ballate e madrigali che poeti, giullari, musici, saltimbanchi, e cantori semi-ufficiali di laudi (autori “pop”) hanno saputo far circolare, secondo diverse modalità e periodizzazioni, per secoli in tutta Europa. E non solo in Europa, ovviamente: basti pensare al ruolo dei griot delle corti dell’Africa occidentale. In Italia, il rapporto tra la poesia e la musica inizia in modo sostanziale sin da Petrarca che, come ricorda Petrobelli, “inviava ad amici ‘cantori’ non solo i testi concepiti nelle forme ‘per musica’ (madrigali, ballate), ma anche quelle dei suoi sonetti, perché venissero ‘vestiti’, cioè musicati, o meglio eseguiti accompagnandoli ad una melodia”. I cantori dei quali Petrarca si serviva non erano affatto avulsi da una tradizione orale, che perdurerà, se vogliamo così generalizzare, per un paio di secoli ancora. Nonostante si parli spesso di una cesura che si sarebbe verificata, a un certo punto della storia letteraria di molti paesi, all’interno del connubio felice tra poesia e musica – e quindi tra il poeta e il musicista/cantore che fino ad allora coincidevano con la stessa persona – questa spaccatura, sin dal Rinascimento, ha subito notevoli smentite sia per ciò che riguarda la tradizione colta che quella popolare (“pop”). È Zumthor a sottolineare una continuità, sin dai primordi aedici, della “presenza della voce” che mira dritta alle attualizzazioni contemporanee della lettura pubblica, della “performance poetry”, e del recente fenomeno della “spoken poetry”, come eventi fruibili dalle masse e pensati per le masse, momenti “necessari” di aggregazione, protesta, momenti anche elegiaci di partecipazione emotiva. Non che la poetica debba per forza di cose sposarsi con la politica o con la musica rock o di protesta, ma la musicalità è un fatto irrinunciabile di ogni poeta, e in quanto tale si può sviluppare in una varietà di forme e attualizzazioni».
E della laurea honoris causa a Patti Smith cosa pensa?
«Non dimentichiamoci che Patti Smith, nel febbraio 1971, prima di approdare al successo nel campo della musica pop, è stata tenuta a battesimo, come poetessa, da Anne Waldman, una delle amiche preferite di Allen Ginsberg, e promotrice di eventi e di scuole di scrittura negli Stati Uniti. Anche nel caso della Smith, sono stati i classici a formarla come scrittrice: primo tra tutti Rimbaud, ma anche Blake, che le era stato mediato dall’entusiasmo di tutto un gruppo nel quale Ginsberg faceva da capofila, ma anche da Eric Andersen, che in quegli anni, ricordiamolo, insegnava le accordature aperte a Joni Mitchell, rivoluzionava la canzone d’autore spingendola verso la direzione della poesia, e si legava in amicizia con la stessa Patti Smith quando lei viveva al Chelsea Hotel con Robert Mapplethorpe, condividendo con lei idee, libri, discussioni. La scrittura, quella bella, non viene mai dal nulla: deve passare, come tutti i mestieri, attraverso anni di apprendistato, formazione, pratica e rifinitura. Guardiamo il successo tardo della Smith come prosatrice, con “The Coral Sea” (1997), “Just Kids” (2010), “Woolgathering” (2011), e “M Train” (2016): i suoi testi ora godono di alta concentrazione, si basano meno sull’elemento della “rottura” o dell’“anticonformismo” che l’hanno caratterizzata negli anni Settanta, e mettono in gioco una rara saggezza che gli è venuta dopo anni di silenzio, anni in cui si è ricucita addosso una dimensione autoriale, a fianco delle sue “sperimentazioni” giovanili».
Per quale motivo avete inserito nel programma un ricordo specifico per i 50 anni del disco “Songs of Leonard Cohen”, autore di “Hallelujah”, canzone-manifesto del cantautore canadese, poi diventata una delle ballate più famose al mondo e tratta dal Salmo 59?
«Ascolto le canzoni di Cohen da quando, nei primi anni Settanta, comprai quel suo primo LP. La semplicità e la misteriosità di quelle atmosfere sono irresistibili, e ci lasciano intuire subito che si tratta di poesia in musica, e non di una produzione pop. Più volte, anche assieme a dei colleghi a Venezia, ho pensato di invitarlo a tenere una lettura, o una conferenza nella nostra università, ma c’è sempre stato qualche “intoppo”. Personalmente, ci provai nel 2003, quando volevo assegnargli il premio per la Poesia e la Traduzione ad Ascoli Piceno, che poi ritirò invece il Nobel Wole Soyinka. Cohen mi rispose che, dopo anni di clausura in un monastero, si sarebbe goduto il sole di settembre a Idra, e che sarebbe venuto l’anno successivo. Ma è cosa nota come poi, l’anno successivo, incappò nello scandalo del furto al suo capitale ad opera proprio della donna che ci aveva messo in contatto. Questo, per dire come da sempre lo considero un caso eccezionalmente esemplare per quel connubio di poesia e canzone che ho studiato anche in altri, tra cui Manuel Alegre (Portogallo), Linton Kwesi Johnson (Giamaica), e Mzwhake Mbuli (Sud Africa). Eppure, per Cohen il parto di quel primo LP non fu facile, sempre in bilico tra un sogno mai realizzato di far successo con la “country music”, la disillusione che la poesia non lo avrebbe sostenuto abbastanza nella vita, la voglia di tornarsene a Idra dalla sua Marianne e la stima che un giovane Lou Reed tributava al suo primo romanzo, “Beautiful Losers”. Ma alcune canzoni di quell’album rimangono oggi tra le cose migliori di Cohen, tra cui “Suzanne”, che indicherei come la sua canzone-manifesto, prima ancora di “Halleluja”. La serata di Vicenza sarà un tributo a uno dei grandi esempi, nel mondo, di come un poeta possa anche essere cantautore, e conquistare le platee con la sensibilità che solo la grande letteratura riesce a esibire quando canta le sonorità dello spirito».
Oltre al caso di Cohen, nell’ambito della musica pop ricordiamo anche “Turn, Turn, Turn” dei Byrds, un testo tratto dall’Ecclesiaste. Pensa che la Bibbia sia ancora un riferimento sia per la musica che per la poesia?
«La discussione sarebbe davvero molto estesa, e ci porterebbe verso un vero e proprio trattato: ma, in breve, come si può pensare che la poesia faccia a meno della Bibbia? Ho studiato per oltre vent’anni, e tradotto, un grande della poesia inglese del Novecento, Geoffrey Hill: è noto ai più che la sua opera, come quella di molti dei suoi contemporanei, non potrebbe esistere senza quella fonte primaria. O, si pensi alla musica, e si guardi il lavoro di escavazione sui testi di Dylan a firma di Alessandro Carrera, uno studioso che ha indagato moltissime fonti bibliche nelle canzoni dell’americano. E anche il lavoro di Salvarani-Semellini sul Vangelo e Cohen, o il famoso libro sul canadese di Liel Leibovitz (“A Broken Hallelujah. Rock and Roll, Redemption and the Life of L.C.”). Chi approfondisce il mistero della vita, e varca la soglia della visionarietà, è alla Bibbia che approda, prima o poi, magari contestandone i presupposti, o dialogando con essa. Sta lì la fonte del contendere, e la maturazione dell’interrogativo posto dai grandi autori, poeti o cantanti che siano».