Urbanistica, bulldozer e pecore. Sono gli strumenti con i quali Israele “regola” i rapporti con i palestinesi della “West Bank”, la Cisgiordania. L’urbanistica per favorire gli insediamenti dei coloni, i bulldozer per abbattere le case dei palestinesi e le pecore perché facciano razzia nei loro frutteti. A questi “strumenti” se ne aggiungo altri, più “spicci”: bloccare con le auto i bambini palestinesi mentre vanno a scuola, assalti con spranghe e bastoni, posti di blocco chiusi a tempo indefinito. Atti di prevaricazione che oggi sono documentatissimi, per chi vuole fare lo sforzo di vederli, grazie al lavoro congiunto di associazioni come l’israeliana Ta’aysh (cioè “vivere insieme”) e la palestinese Youth of Sumud (“Gioventù della perseveranza”), raro esempio di collaborazione tra i due popoli che lo scorso ottobre hanno ricevuto il Premio Alexander Langer, in memoria dell’attivista pacifista e non violento altoatesino.
Due rappresentanti di queste associazioni, l’israeliano Guy e il palestinese Mohammed, sono stati a Vicenza nei giorni scorsi, per portare la loro testimonianza e denunciare le continue violazioni dei diritti umani che avvengono in Cisgiordania. Non è un lavoro facile e viene ribadito dagli organizzatori dell’incontro con i due attivisti che si è svolto all’ex Centrale del latte di Vicenza lunedì 24 febbraio: la raccomandazione ai presenti è quella di non scattare foto dell’incontro, tantomeno di divulgarle. Il loro metodo di lotta è non violento: rendono abitabili villaggi da dove i palestinesi sono stati cacciati, aiutano gli agricoltori nella raccolta delle olive, accompagnano i bambini lungo il tragitto casa-scuola, anche con l’apporto di altre organizzazioni internazionali come Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII.«Dal 7 ottobre 2023 siamo sotto costante minaccia di morte – racconta Mohammed, ventenne, attivista da quando di anni ne aveva 13 -. Uscire per andare al lavoro, a scuola o a fare la spesa è diventato pericoloso, non è mai stato facile per via dei posti di blocco, ma oggi la situazione è peg-giorata». La condanna delle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi è unanime: «Quella che viene indicata come l’unica democrazia nel Medio Oriente ha instaurato di fatto un regime di apartheid e che non rispetta i diritti umani». Un regime che può essere abbattuto secondo Guy, l’israeliano, «e non sto parlando di violenza, ma di una iniziativa internazionale avvenuto con il Sudafrica che ha pagato sul piano economico il regime segregazionista. Dobbiamo chiedere ai nostri leaders di fare qualcosa e smettere di rimanere in silenzio».
Se la storia di Mohammed è quella di un palestinese la cui famiglia ha vissuto la “nakba”, letteralmente “la catastrofe”, cioè l’esodo forzato dopo la guerra del 1948 e che oggi rifiuta la condizione in cui è costretto a vivere, il percorso di Guy è stato diverso. «Mio padre lavorava con i palestinesi, non li ho mai visti come terroristi o nemici, ma come esseri umani – racconta l’attivista -. Una parte della mia famiglia è composta da coloni. Andavo spesso in West Bank, vedevo la disparità tra israeliani e palestinesi. Poi è esplosa la Prima intifada, ero adolescente e ho voluto capire cosa stava accadendo. Ho cominciato a fare ricerche in biblioteca, per me è stata la svolta, uno shock. Per anni però non ho fatto niente, fino al 2010, quando ho partecipato alla mia prima manifestazione per i palestinesi a Gerusalemme. Mio nonno è sopravvissuto all’olocausto, ero il suo primo nipote, mi raccontava spesso la sua storia e quella dei suoi fratelli, tutti morti nei campi di sterminio, storie di razzismo e discriminazione. Ho iniziato a comparare quelle storie della mia famiglia alle vicende dei palestinesi. Gli ebrei dicono “mai più”, ma deve essere “mai più per tutti”, non per pochi».
Andrea Frison
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