Dalla finestra della sua camera nella casa dei genitori in Riviera Berica, dove è cresciuto, vede la Basilica di Monte Berico «un luogo del cuore». Torna a Vicenza meno di quanto vorrebbe Christian Greco, 49 anni, da 10 direttore del prestigioso Museo Egizio di Torino. Era a Vicenza anche la scorsa settimana per il compleanno del padre, per tirare il fiato e prepararsi al gran finale dei festeggiamenti per i 200 anni del museo, fondato nel 1824.
Il 20 novembre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aprirà le celebrazioni. Verranno inaugurati il riallestimento del Tempio di Ellesjya e la nuova Galleria dei Re con incontri, brevi conferenze, presentazioni delle nuove sale fino al 22 novembre. Come sta vivendo questo momento?
«Sto vivendo uno stato di grazia. Lavoro 20 ore al giorno, ma non mi pesa. Alcuni progetti sono stati avviati più di un anno fa. La prima parte dei festeggiamenti risale a novembre 2023. Ogni 3-4 mesi c’è stato un evento, una novità . Il 5 ottobre abbiamo inaugurato due nuove sale. Continueremo nel 2025. Ci siamo chiesti: “Che cosa manca al museo? La risposta è: “L’Egitto”. Rappresenteremo quindi i giardini nelle tombe del nuovo regno di Tebe: la flora, i fiori di loto, il sicomoro, ricreeremo un meraviglioso paesaggio immersivo. È un momento bellissimo, ma anche molto impegnativo perché c’è da gestire anche l’ordinario, migliaia di visitatori. È stato uno sforzo economico molto importante, abbiamo anche acceso un mutuo».
Come accoglierete il Presidente?
«Gli stiamo preparando qualcosa di speciale. Posso anticiparle solo che gli consegneremo un volume speciale sui 200 anni del Museo al quale lavoriamo da mesi, firmato da più di 50 autori, in collaborazione con università italiane e straniere».
I 200 anni coincidono con i 10 anni della sua direzione. Dopo così tante emozioni non si stancherà di fare il di rettore?
«Non sarò io a cambiare. Ho ancora tantissime idee e progetti».
Ad esempio?
«Progetti di scavi, una sede del museo più grande, una meravigliosa biblioteca per gli appassionati, rendere il magazzino totalmente visitabile».
Che cosa ama di più del suo lavoro?
«È un piacere multiforme. Lavoro in uno dei pochi luoghi al mondo in cui saperi di versi si devono confrontare: ingegnere, architetto, curatori, pedagogo, responsabile di sala, grafico, direttore gestionale per il budget devono fare squadra. Il sapere del singolo non deve prevalicare. Solo se ognuno fa la propria parte si ottengono i risultati. Il museo insegna l’umiltà . Bisogna ascoltare ed è un continuo mettersi in discussione. I clienti sono i nostri stakeholders, accettiamo sempre volentieri le critiche, impariamo da quelle negative alle quali rispondiamo sempre. Mi piace tantissimo il contatto con i visitatori, una volta al mese continuo con “le passeggiate con il direttore”, dopo l’orario di chiusura. Il valore aggiunto è anche il contatto con gli oggetti, con la cultura materiale, è un’enciclopedia delle generazioni che ci hanno preceduto. Viviamo nella società della post verità , in cui ognuno tramite i social può dire quello che vuole. Le gerarchie sono azzerate. Il museo ci insegna invece che esistono i limiti, che gli oggetti sono un monito e parlano alle nuove generazioni».
L’egittologo Oman Abou Zaid ha dichiarato al “Giornale dell’arte” che «il museo Egizio di Torino è uno dei principali musei al mondo non solo per i suoi capolavori ma anche per il modo di esporli e conservarli”. Qual è stato il suo contributo in questo senso?
«Da quando sono arrivato non è rimasta una didascalia o una vetrina. Da 3800 oggetti esposti siamo passati a circa 20mila. Solo la nostra sala dei tessuti ospita più di un chilo metro di tessuti faraonici». Il risultato del quale va più fiero? «La squadra. 10 anni fa, quando sono arrivato, avevo 13 colleghi, ora ne ho 86. Loro sono il museo che è fatto di donne e uomini che si prendono cura giornalmente della collezione, che fa ricerca quotidiana a 360 gradi. Devo rin graziarli. Solo nella sala “Materia. Forma del Tempo” c’è una vetrina a due piani con 5mila vasi. Immagini che cosa significa prelevare vaso per vaso, trovare una nuova collocazione, registrare tutto nell’inventario digitale».
L’oggetto che non ha potuto avere, il progetto che non ha potuto realizzare.
«Ci è stato chiesto di poter organizzare una mostra sull’oggetto più famoso della nostra collezione: la statua di Ramses II. No, niente, la statua deve stare dove sta, è impossibile muoverla. La meraviglia è che l’oggetto che decide, non noi».
È cresciuto a Vicenza con i nonni, che valori le hanno trasmesso?
«Il tempo trascorso con i nonni sia materni che paterni è stato determinante per quello che poi ho deciso di studiare. Il rapporto intergenerazionale ha un ruolo chiave, parlare con persone più grandi di noi, persone che ci raccontano storie che non conosciamo. I nonni sono dei traghettatori. Nel mio piccolo cerco di fare di tutto perché ci sia un vero dialogo intergenerazionale».
De liceo classico “Pigafetta” che ricordi ha?
«Meravigliosi. È un luogo che ho amato, è la “mia” scuola, in cui mi sono formato. Non sarei qui se non lo avessi frequentato. Porto alcuni professori nel cuore. Devo ringraziare due professori: la professoressa Nicolli di greco e il prof Cazzola di storia e filosofia, due fari».
Negli anni del liceo frequentava la messa?
«Negli anni del liceo andavo sempre alla messa delle 11 al Duomo. Mi ha sempre affascinato tantissimo il rituale episcopale. Ho ricordi indelebili delle omelie del vescovo Pietro Nonis, la sua competenza storia, l’esamina delle fonti. Le apprezzavo tantissimo».
Marta Randon
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