Il 12 e 13 ottobre sarà in Veneto, a San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona. Giovanni Scifoni, 48 anni, attore romano di teatro, cinema e fiction (una su tutte “Doc – Nelle tue mani”) porterà in scena il suo ‘Fra’. San Francesco la superstar del Medioevo’, un monologo che sta avendo un grandissimo successo di pubblico e consensi in tutta Italia. Niente mistificazioni, ma il poverello d’Assisi umano, «uno di noi».
Scifoni, chi ha visto il suo spettacolo dice che è una “evangelizzazione”. È d’accordo?
«No, non sono d’accordo, perchè non è il mio ruolo. Nello spettacolo metto in luce gli elementi principali della vita di San Francesco che hanno interrogato la mia esistenza. Parlo a tutti, a chi crede e a chi non crede. Come altre volte ho scelto un tema che ha a che fare con il Vangelo perché sono le storie che mi hanno colpito di più, affascinanti e piene di interrogativi. Non sono sul palco a fare un’opera di convincimento o di proselitismo, anzi. Ognuno è giusto che ci veda quello che vuole, che si porti a casa quello che vuole».
Si ricorda chi le ha regalato il primo Vangelo?
«Sono cresciuto in una famiglia catto-comunista, sulla libreria di mio padre ce ne saranno state dieci copie. Sopra il mobile principale del salotto c’era una Bibbia sempre aperta. Mio padre aveva tantissimi libri: i cattolici e la politica, i cattolici e l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza. Sono cresciuto leggendo quella roba lì. Mamma e papà erano portatori di un pensiero potente del quale oggi si sente un po’ la mancanza. Ho avuto tanti maestri, uno su tutti Pino Manzari, insegnante di teatro, catechista, missionario, grande uomo di fede e di vita. Una mente aperta che metteva sullo stesso piano Vangelo, Pirandello e Dostoevskij».
Qual è l’aspetto che l’ha sorpresa di più studiando San Francesco?
«La sua contraddittorietà . Non aveva un’idea precisa di cosa voler fare della sua vita. Aveva un ego smisurato, comba tteva prima di tutto contro il suo egocentrismo».
San Francesco sapeva anche essere cattivissimo.
«Sì, con i suoi confratelli. Ma immeditamente dopo era capace di slanci di generosità senza fine. Mi ha colpito la sua mancanza totale di mezzi termini, era un uomo estremo, nella bontà e nella durezza, poteva essere estremamente permissivo oppure severo. Sicuramente non era un uomo facile».
Che cosa gli invidia?
«Era un attore e performer molto più bravo di me. Aveva la capacità di sorprendere e di tradire il pubblico. Se la gente si aspettava qualcosa, lui faceva l’opposto. Era un grande provocatore. Era famoso in tutto il mondo medievale, andava nelle piazze e radunava migliaia di persone. Un giorno salì su un sasso, stette zitto mezz’ora, si mise il cappuccio e ne ne andò».
Per preparare lo spettacolo come si è documentato ?
«C’è una letteratura sterminata su Francesco. In ogni libreria ben fornita c’è il settore saggistica, narrativa, teatro e il settore San Francesco. Ho apprezzato la biografia scritta da Tommaso Da Celano, vita prima e seconda di San Francesco d’Assisi, ho letto la biografia non ufficiale “La leggenda dei tre compagni” e “I fioretti”. La vita raccontata da San Bonaventura invece non mi è piaciuta».
Ha un santo amico?
«Ne ho due: Giuseppe da Copertino, un santo stupido che non sapeva fare nulla. Divenne protettore degli studenti. Volava, era fantastico. L’altro è San Giovanni di Dio, il santo dei pazzi, era pazzo di Dio. I limiti esistenziali mi danno tanta speranza».
Ad agosto ha portato lo speacolo ad Assisi, davanti alla Porziuncola. Sui social ha scritto: “Ora potrei andare in pensione”.
«C’erano quattromila persone, non ho mai avuto una platea così numerosa. Era incredibile che fossero lì per me. Non bisogna piacere a tutti, ma ad alcuni, è la prima regola fondamentale di ogni artista. Non bisogna seguire il consenso, il successo. Io racconto le cose che più mi premono, nel modo più laico possibile. Quando però vedi che si raduna un mondo che capisce la tua sensibilità e il tuo modo di esprimersi è davvero incredibile. Nella Porziuncola, in quella chiesina, è cambiato tutto, la storia della Chiesa, del mondo, dell’architettura, dell’economia. Non mi sentivo degno. Non è falsa modestia, non si è mai degni, si è sempre inadeguati».
Inadeguato, forse lo era anche Francesco…
«Sì, ha fatto tanti errori anche lui, come tutti. Alla fine era un ‘coatto’ di periferia. Non credo alla teoria degli uomini speciali, dei grandi eroi, santi dall’enorme talento».
Il successo perché arriva? A lei è arrivato.
«Sono tanti fattori insieme. La principale dote del successo è vincere la pigrizia. A me piace dormire tantissimo, la pigrizia è la mia nemica numero uno».
Preferisce fare teatro o le fiction?
«Io sono un attore che ha bisogno del contatto del pubblico per sopravvivere. Registri le fiction e fai un semilavorato, nel senso che non vedi il prodotto finito, non ne hai la percezione. A me questo genera un po’ di frustrazione. Nel teatro hai l’immediata percezione di che cosa stai generando e quindi se stai facendo schifo».
Le è capitato di fare schifo?
«Certo. È come stare in una prigione russa, ti senti un torturatore: di te stesso e del pubblico in sala».
La vita dei suoi tre figli «fatti con la stessa donna» scherza sui social, è fonte d’ispirazione?
«Continuamente. È un continuo scontro con la propria inadeguatezza. I figli ti sgamano, ti riportano con i piedi per terra, ti fanno rendere conto che in fondo non sei niente di che. Lo fa anche mia moglie. Quando sono con gli amici a cena e magari mi faccio prendere la mano e parto con i miei aneddoti ecco che uno dei miei figli: ‘Papà questo l’abbiamo già sentito mille volte’. Assumo l’atteggiamento del saltimbanco e mi smontano».
Marta Randon
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