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Fratel Simone Bauce. Il vicentino che difende l’Amazzonia e i suoi popoli

Il missionario comboniano, nato ad Arzignano nel 1975, coordina la pastorale indigenista della Diocesi di Roraima.

6 Novembre 2024
in Missioni, In primo piano
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Fratel Simone Bauce. Il vicentino che difende l’Amazzonia e i suoi popoli

Fratel Simone Bauce durante una manifestazione del Movimento Indigena contro il "marco temporal".

La difesa della foresta Amazzonica e dei popoli indigeni che la abitano è una priorità per la Chiesa brasiliana e tra i missionari più impegnati su questo fronte c’è anche un vicentino, fratel Simone Bauce. Comboniano, nato ad Arzignano nel 1975, dallo scorso anno è il coordinatore della pastorale indigenista per la Diocesi di Roraima, all’estremo nord del Brasile, dove operano i missionari fidei donum delle Diocesi di Vicenza, Padova e Treviso.

Fratel Simone, partiamo dall’inizio: quando sei arrivato in Roraima?
«Ad inizio 2020. È stato un mezzo macello. Mi sono trovato ad essere una persona nuova in una realtà che non conoscevo e costretto a rimanere chiuso in casa per la pandemia. L’inizio è stato un po’ difficile. Ma a parte questa parentesi, ho iniziato subito ad inserirmi nella pastorale indigenista».

Parli di “pastorale indigenista” invece di “pastorale indigena”. Perché?
«La pastorale indigena è quella portata avanti dagli stessi indigeni. Quella di cui mi occupo io è pastorale “indigenista”, ovvero seguita da persone che lavorano per gli indigeni, ma che non sono indigene».

Con chi lavorate?
«Lavoriamo con i Popoli indigeni di tutta la Diocesi, che coincide con i confini dello Stato di Roraima. Lo Stato è grande come il 70% della superficie dell’Italia ma è popolato da appena 650 mila persone. Secondo un censimento dello scorso anno, gli indigeni sono oltre centomila, i gruppi etnici presenti e riconosciuti sono 12, ma esistono anche gruppi isola che non hanno avuto finora contatti e non vogliono averne».

Come si muove la pastorale indigenista?
«A Roraima, a partire dal Concilio Vaticano II, si è fatta una scelta chiara di accompagnamento dei popoli indigeni. I Missionari della Consolata per primi hanno iniziato ad accompagnarli nel loro modo di vita, facendo la proposta del Vangelo, ma rispettando chi non voleva accoglierlo. Per la missione è stato un cambio epocale. Poi, tra gli anni ’60 e ’80, lo Stato centrale ha promosso una forte migrazione verso le terre amazzoniche, considerate incolte, improduttive e disabitate. La Chiesa si è schierata fin dall’inizio a favore degli indigeni e i missionari hanno iniziato ad aiutarli perché loro stessi diventassero protagonisti del loro sviluppo, senza imporre una visione occidentale. Così sono nate le prime organizzazioni indigene con leaders indigeni. E oggi, dopo cinquant’anni, ne vediamo i frutti. Il Movimento Indigena di Roraima è il più forte di tutto il Brasile, il meglio organizzato e il più capace di mobilitazione».

Perché questo forte impegno sociale nella Chiesa brasiliana?
«Se non difendi la foresta, i popoli che la abitano muoiono. E se spariscono gli indigeni, a chi annunciamo il Vangelo? Dobbiamo difendere l’Amazzonia e tutto quello che c’è dentro: piante, animali, persone. Oggi gli indigeni sono attaccati come lo erano cinquecento anni fa, ma in un altro modo più sottile, giustificato dal bisogno di sviluppo economico… e continuano a venire assassinati. L’anno scorso sono stati uccisi 208 indigeni in tutto il Brasile. In Roraima 47».

Assassinati da chi?
«La lista è lunga. Politici che li considerano un ostacolo allo sviluppo economico. Grandi latifondisti che vogliono espandere i loro terreni per la coltivazione o l’allevamento. Confessioni religiose cristiane non cattoliche che considerano gli indigeni selvaggi che hanno bisogno di essere indottrinati».

È facile immaginare che latifondisti e politici vadano a braccetto. Le confessioni religiose di cui parli li spalleggiano?
«Qui in Brasile si parla di “bancale”, cioè forti gruppi di potere. Uno di questi è il BBB che sta per bala (armi), boi (bovini) e biblia (bibbia). I latifondisti hanno bisogno di gruppi paramilitari per invadere le terre degli indigeni, spaventarli, cacciarli o peggio. Gli evangelici purtroppo li sostengono. E i rappresentanti di questi gruppi siedono in Parlamento».

Descrivi una situazione che sembra non cambiare mai. In questi anni sono stati fatti progressi?
«Progressi importanti sono stati fatti con l’approvazione della Costituzione brasiliana nel 1988. Gli articoli 231 e 232 parlano esplicitamente di indigeni e dei loro diritti, ma in quest’ultimo periodo sono sistematicamente attaccati. Il nodo sono le terre indigene: i gruppi di cui parlavo prima vorrebbero che venissero riconosciute come tali solo quelle registrate prima del 1988. È il tema del “marco temporal”, nelle scorse settimane in tutto il Brasile si sono svolte moltissime manifestazioni del Movimento Indigena contro questa possibilità».

Bolsonaro era apertamente contrario alle rivendicazioni dei popoli indigeni. Come si sta muovendo Lula?
«La campagna elettorale di Lula è stata fortemente appoggiata dal Movimento Indigena. Quando ha iniziato a governare, però, Lula si è trovato in una situazione difficile. Non ha la maggioranza nel congresso e deve cercare continuamente il compromesso. Inoltre, Lula proviene dal nord est industrializzato, è di estrazione operaia e la sua idea di sviluppo non vede il problema ecologico come prioritario. Non possiamo illuderci che sarà il salvatore dei popoli indigeni».

La Rete ecclesiale Panamazzonica (Repam) nata nel 2014 e il Sinodo sull’Amazzonia del 2019 stanno portando frutto?
«La Repam è nata perché i nove Paesi sui quali si estende la foresta (Brasile, Venezuela, Guyana francese, Guyana britannica, Suriname, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, ndr) avevano la stessa necessità di difendere la natura e accompagnare i popoli amazzonici. La Repam ha così dato vita a una rete di appoggio, sostegno, formazione e denuncia. Vengono organizzate scuole di formazione in diritti umani per agenti pastorali e leader comunitari, siano essi indigeni, afro-discendenti o semplici contadini. Dopo il Sinodo sull’Amazzonia, in Brasile, è partita la campagna “Vita appesa ad un filo” con l’obiettivo di creare una rete di protezione attorno ai leader comunitari minacciati che permetta loro di continuare a vivere nei loro territori e denunciare situazioni di ingiustizie. La campagna è nata a livello di associazioni cattoliche, ma si sono uniti molti altri movimenti».

La vostra è un’attività che vi espone a rischi?
«Ma annunciare il Vangelo è privo di rischi? Per qualcuno sì, ma allora mi chiedo: lo stai annunciando veramente? Il Vangelo è radicale, esigente, scomodo, critico. Se, come nel nostro caso, vai a scomodare i poteri forti dell’economia, è chiaro che ricevi “pressioni”. Recentemente abbiamo avuto delle suore che lavorano nella pastorale indigenista che sono state minacciate indirettamente. Basta che qualcuno si alzi durante un’assemblea pubblica e dica: “La Chiesa non sta facendo il bene della popolazione”. Ci sono tanti cattolici che non vogliono saperne dei popoli indigeni».

Non sono solo le chiese evangeliche a creare problemi, quindi…
«Sono più preoccupato dei movimenti cattolici nati in opposizione alla Teologia della liberazione. Sono comunità che hanno molte vocazioni tra i giovani e che propongono una visione della Chiesa pre conciliare. I giovani si sentono sicuri, protetti perché entrano in una struttura già formata, con regole ben definite e una disciplina ferrea. Questo è pericolosissimo. Viene annullata la volontà, la capacità di pensare, di scegliere, di capire».

Un Papa come Francesco vi permette di muovervi con le spalle coperte. Non temi che dopo di lui le cose possano cambiare?
«Questo Papa per noi è una benedizione. Nell’Amazzonia brasiliana si è mosso astutamente, nelle Diocesi chiave ha messo Vescovi della sua linea. Nel futuro spero con tutto il cuore in un “Francesco bis” altrimenti avremo grossissime difficoltà. Adesso quasi tutti i Vescovi stanno lavorando in sintonia. Questo mi dà fiducia e speranza nel futuro».

Andrea Frison

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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