«Quando si parla di famiglia bisogna sempre ricordare la sua fragilità ma anche esser consapevoli che è la condizione essenziale per il bene delle persone». Francesco Belletti, 65 anni e padre di tre figli, è il direttore del Centro internazionale studi famiglia (Cisf) di Milano, un osservatorio e un centro di documentazione che da oltre trent’anni mette sotto la lente di ingrandimento le famiglie italiane, i cambiamenti che le coinvolgono, le difficoltà che affrontano e le risorse che possono mettere in gioco.
Belletti, il 26 giugno si svolge a Roma e in tutto il mondo il X incontro mondiale delle famiglie. Ma a sfogliare le pagine dei giornali, tra omicidi e violenze, sembra che ci sia poco da festeggiare: è così?
«Il punto è che la famiglia è un posto talmente vicino all’identità delle persone che non può che scontrarsi con la fragilità dell’uomo. Da un lato è un luogo irrinunciabile per la felicità e il benessere di ogni persona e un luogo irrinunciabile per la coesione sociale della comunità. Dall’altro lato, si trova a dover fare i conti con il peccato, con la fragilità, con il male. Non sorprende ma scandalizza che dentro alle famiglie si inneschino le violenze peggiori. La famiglia ha il compito di proteggere i più vulnerabili e di essere luogo di cura reciproca: quando questo impegno viene meno si vive l’inferno, perché viene tradita la fiducia delle persone che hanno bisogno di esser protette. È un dato, questo, che non può essere nascosto per una retorica della “famiglia buona”. La famiglia è un bene, ma può essere fragile, pervertita, cattiva».
L’impressione che si ha è che ci sia un’aumento della violenza domestica: è vero?
«Questo dato si riscontra a tutte le latitudini: a livello internazionale, infatti, cresce l’allarme per la violenza domestica. Donne e minori sono spesso la parte più vulnerabile. Contemporaneamente, non è togliendo la famiglia che verrebbe meno la violenza nei confronti dei più fragili, perché le stesse società sono violente: i meccanismi economici globali hanno scaricato sulle famiglie vulnerabilità e povertà».
Alla luce di tutto questo, che significato assume l’incontro mondiale delle famiglie del 26 giugno?
«Sarà un incontro per evidenziare la bellezza della foresta che cresce, senza nascondere il rumore di un albero che cade perché fragile e malato. Quando parliamo di famiglia, bisogna sempre ricordare la sua fragilità ma anche essere consapevoli che è una condizione necessaria per il bene delle persone».
Ha parlato dei meccanismi dell’economia globale che scarica sulle famiglie povertà e vulnerabilità. Ci sono altre cause che “minano” la stabilità delle famiglie?
«Attenzione però, è necessario prendere le distanze dal contesto occidentale di economie avanzate. Perché è nel nostro contesto che la famiglia è messa in discussione nella sua identità. In un’indagine Cisf del 2020 abbiamo parlato di “società post-familiare”, ovvero della società post-moderna che fa a meno della famiglia. Ma se guardiamo in altri contesti (Africa, Asia, Cina, India o Sudamerica), la famiglia è un valore solido, tutti sanno bene cos’è e si fidano delle relazioni familiari. Nella società consumistica c’è una fragilità della famiglia che non corrisponde alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Si apre un tema culturale molto forte quando ci si domanda il perché della fragilità della famiglia: possiamo parlare di relazioni fragili, del “per sempre” come un illusione, della paradossale crisi della generatività che rivela assenza di speranza e di progetto sul futuro tipico delle nostre società, opulente e schiacciate dal consumismo, dove anche le relazioni sono diventate merce. Eppure, tanta gente ancora si sposa e scommette sulla famiglia e sui figli».
Perché, secondo lei?
«C’è un desiderio di famiglia molto diffuso, ma per molti giovani manca il lavoro, che in ultima analisi significa che mancano certezze e speranze. Mediamente, secondo diversi studi, le famiglie italiane desiderano un figlio in più di quelli che riescono a mettere al mondo. Tutto questo è specifico del contesto italiano e dei paesi industrializzati, nei quali l’individualismo vede i legami familiari come impedimento alla felicità. Invece è con gli altri che la libertà diventa piena. Questa è la scommessa della famiglia e dell’amore di coppia. Un figlio ti darà meno autonomia, ma ti farà diventare più libero e più umano. Questo elemento culturale può essere sostenuto dalle politiche familiari».
A proposito, rispetto alle politiche familiari l’Italia sembra più indietro di altri. È così?
«Il nostro problema è che abbiamo vissuto di rendita sulla tenuta delle famiglie. Il nostro welfare si è basato sulle famiglie. Ma le sfide della storia sono più forti della tenuta delle famiglie. La politica ha sfruttato la famiglia come una risorsa naturale che si rigenera da sola, quando invece va mantenuta e alimentata come i fiumi, i boschi, i beni culturali. In Italia la politica pensa alle prossime elezioni, invece una famiglia, quando mette al mondo un figlio, pensa ai prossimi 25 anni. La Chiesa, nel discorso pubblico, è una delle poche istituzioni che ha sostenuto la famiglia, magari in modo teorico, senza riuscire a confrontarsi con le fragilità concrete».
Torniamo all’incontro delle famiglie. Il titolo è “L’amore familiare: vocazione e via di santità”: cosa c’entra questo tema con i discorsi fatti finora?
«C’entra molto, perché la vocazione cristiana alla santità invita la famiglia ad essere un luogo che aiuta le persone a diventare più felici. Diventare santi non vuol dire diventare bravi e senza peccato ma cogliere il senso della vita e spendere tutto lì. L’incontro mondiale è anche una grande occasione per riscoprire che la famiglia è costruttrice di Chiesa, non utente di servizi parrocchiali. D’altronde, la Chiesa primitiva viveva nelle case dei primi cristiani».