I dati Istat circolati nei giorni scorsi che sanciscono il “sorpasso” delle donne non praticanti sulle praticanti, a suo modo, è un fatto storico, «anche se la tendenza era chiara ormai da vent’anni. Tuttavia l’impatto che questo tipo di notizie “numeriche” generano sui media quando si parla di Chiesa devono fare riflettere sull’immagine che la Chiesa stessa sta, volente o nolente, comunicando». Ad affermarlo è don Simone Zonato, sociologo, docente dell’Issr “Arnoldo Onisto” e della Facoltà teologica del Triveneto.
Per la prima volta dal 1993 (inizio della rilevazione Istat), le donne che non si recano mai in un luogo di culto hanno superato quelle che vi si recano ogni settimana.
Le praticanti regolari hanno iniziato a calare dal 2005, la pandemia ha accelerato il processo e ora la loro percentuale si è dimezzata, passando dal 44% al 22%. «Non mi stupisce il processo ma lo stupore che genera – afferma Zonato -. Provo a spiegarmelo dicendo che da sempre nella Chiesa gli uomini “comandano” e le donne “partecipano”, “frequentano”. È per questo motivo che le donne nella Chiesa fanno notizia quando il loro “audience” cala e gli uomini, cioè i preti, quando le vocazioni vanno in crisi. O calano. È un tema complesso, che riguarda l’immagine della Chiesa nei società e nei media che raccolgono le “percezioni” di una parte della società su un argomento. Ma anche la sostanza dell’esperienza ecclesiale».
Insomma, c’è del vero quando si dice che nella Chiesa gli uomini comandano, non serve nasconderselo.
«Certo, ma le cose stanno anche cambiando molto. Fino a pochi decenni fa, per la prima comunione le bambine venivano vestite da “piccole spose”. Nelle bambine, e quindi nelle donne, questo era uno dei tanti veicoli che le portava ad incorporare un “habitus” molto forte di tipo passivo e “casalingo”. Negli anni, però, questo tipo di socializzazione è venuto sempre meno. Le “vestine” per la prima comunione non si utilizzano più da tempo. I percorsi di catechesi non vedono più incorporato un ruolo “sociale” nella donna e nell’uomo».
Tuttavia, secondo l’Istat, tra le donne che partecipano regolarmente “resistono” soprattutto casalinghe e ritirate dal lavoro. Come lo spiega?
«Perché, nonostante, tutto, continuiamo a parlare di Chiesa con una visione ancora “vecchia”. Non riusciamo a trovare spazi diversi o percorsi alternativi per dialogare con una costruzione identitaria dell’essere donna nel 2023. E questo comporta la difficoltà a riconoscere il valore della formazione nel contesto sociale italiano. Non è un caso se il calo delle donne praticanti è inversamente proporzionale al sorpasso delle donne sugli uomini per titolo di studio. Certamente qui entra in gioco il “clericalismo” più volte denunciato da Papa Francesco e ripreso anche dal nostro Vescovo Giuliano. Tuttavia occorre riflettere su questa “fissa” della quantità».
È come se fossimo ossessionati dal quantificare le persone e quindi dall’occupare uno spazio e, in ultima battuta, dall’avere un “peso politico” sulla società.
Cosa intende con “fissa” per la quantità?
«Anche di recente sulla stampa locale è apparso un servizio che ha posto molta enfasi sul numero di parrocchie e di unità pastorali. Tempo addietro si è parlato di matrimoni religiosi superati dai matrimoni civili. Anche il calo del numero dei preti fa sempre “notizia”. È come se fossimo ossessionati dal quantificare le persone e quindi dall’occupare uno spazio e, in ultima battuta, dall’avere un “peso politico” sulla società. Però, restando sulla questione femminile, non si parla mai della accresciuta qualità nella preparazione delle donne e del loro modo di essere dentro la Chiesa. Analisi quantitative, come quelle redatte dall’Istat, sono molto importanti, ma sono anche una rappresentazione “in bianco e nero” della realtà. Le cose sono molto più complesse, ricerche recenti fatte da studiosi come Pace e Garelli restituiscono percorsi più sfumati e variegati. Non dimentichiamo, infine, che la partecipazione dei maschi ha paradossalmente “tenuto”: stiamo andando verso una situazione di “parità numerica” tra maschi e femmine nella Chiesa».
Però la questione del potere è sempre sbilanciata verso i maschi.
«C’è sicuramente un tema di potere e di incarichi nell’abbandono della pratica religiosa, soprattutto nelle giovani donne più istruite: chi si aspetta che rimangano in una realtà dove hanno responsabilità decisionale pari a zero? E magari, nelle ipotesi peggiori che però si verificano, ci si aspetta che tacciano? Per dare visibilità a percorsi e traiettorie femminili “di qualità” nella Chiesa, occorre dare incarichi visibili alle donne. E combattere con una visione per cui la donna nella Chiesa deve “sostenere” il maschio. È una visione che nel 2023 è completamente fuori luogo. Portare avanti queste visioni anacronistiche delimita il perimetro del futuro, esclude possibilità. In questo senso io ho paura del passato, non del futuro. Il futuro è il tempo delle possibilità. E anche il Papa ci ha messi in guardia dal decidere secondo il criterio del “si è sempre fatto così”. Nella Chiesa serve un cambiamento nel modo di relazionarsi tra generi. E questa cosa richiede tempo, un’educazione e una informazione diverse. Che non riguardano solo la Chiesa».
Cosa intende dire?
«La questione femminile è certamente in primo piano perché le donne hanno vissuto i cambiamenti maggiori negli ultimi anni. Ma il tema è più profondo e radicale, e tira in ballo non solo la Chiesa, ma il cambiamento climatico, la politica, la scuola. La questione femminile è l’epicentro di molti cambiamenti e richiede un aggiornamento di paradigma di tutta la società a trecentosessanta gradi».
Andrea Frison