Non è facile seguire, con accanto un bambino o un adolescente, le immagini che arrivano dall’Ucraina. Tante domande, interrogativi, curiosità che ci dicono che quella sicurezza che ci faceva sentire lontani dalle tragedie di questi tempi in realtà sono poco lontane dal nostro quotidiano vissuto.
Sì, ogni tanto arrivavano notizie, da qualche altra parte del mondo, soprattutto africano, di quelle che definiamo guerre dimenticate. Come sentivamo lontane le tragedie che negli anni hanno segnato il Medio Oriente, le rotte sahariane di gente in fuga dalle guerre civili, le carrette del mare con i disperati a bordo, schiavizzati da gente senza scrupoli.
Stiamo parlando del male del mondo e nel mondo, quel male di cui la responsabilità è tutta nostra. La tragedia ucraina è per questa ragione che la sentiamo cosi vicina. Nonostante le contraddizioni.
I più cinici si nascondono dietro a figure ideologiche del passato, quasi a ripetere che la guerra, con Eraclito, in fondo “è la madre di tutte le cose”, capace di muovere la storia, con esiti per niente scontati. E questa sarebbe, per loro, l’ebbrezza della vita, come ha scritto Hegel. Per cui tutti gli attori, al dunque, sarebbero fatti della stessa pasta.
Ma la storia segue davvero queste nostre rappresentazioni?
Oppure c’è un cuore che dà un senso non sempre visibile agli eventi?
Se ci limitiamo a leggere i manuali scolastici, nei quali si parla troppo dei cosiddetti grandi personaggi, sembra che questo cuore sia limitato alla sola volontà di potenza. Raramente si racconta la storia dei senza storia. Perché le guerre, invece, sono questi ultimi che poi sono chiamati a farle. Magari prima ubriacati dal mito della violenza redentrice. O non è stato per volontà popolare che, ad esempio, per soli 60 voti l’assemblea di Atene condannò Socrate? Per non dire della folla di Gerusalemme che preferì Barabba a Gesù.
Quelle domande iniziali, dunque, credo non si accontentino delle spiegazioni tradizionali, convenzionali, quelle che vanno per la maggiore in giornali, nella tv, in internet.
Quelle domande invece chiedono di essere pensate. E non solo subite, quasi figlie del caos fattosi destino.
Anche la pandemia qualcosa ce l’ha insegnata: che la Terra non è solo degli umani, ma di ogni essere vivente. Ma gli uomini, attraverso (si spera sempre) una buona politica, un sapere umano che si fa anche sapere scientifico, un’etica che chiede di riconoscerci tutti parte della stessa famiglia umana, ed un senso della meraviglia per la bellezza del creato, che ci spinge ad aprirci a dimensioni estetiche e religiose che permeano ogni interstizio di esistenza: tutto questo ci dice che il primo sentimento che dovrebbe trasparire dai nostri pensieri e comportamenti non è la volontà di potenza. Quella stessa volontà che vediamo riempire anche oggi le pagine dei giornali ed i siti delle news e dei social.
Quelle stesse domande non si lasciano accontentare dalle nostre prime risposte. Vanno cioè più a fondo, tanto da chiedersi e chiederci: perché?
Perché gli uomini, al dunque, si lasciano catturare dalla volontà di potenza, di prevaricazione, di un successo sopra e contro gli altri, che si chiamino persone, differenti realtà sociali, etniche, geografiche, di pensiero ed abitudine, di convinzione anche religiosa?
Perché non si riesce a pensare che conta ciò che unisce, e non ciò che divide?
Perché, perciò, il male è o sarebbe più conveniente del bene?
Perché ci rendiamo conto dell’importanza delle cose buone solo quando ci capitano le cose cattive?
Dove sta quella inclinazione al male che prevale sull’istinto di bene?