All’interno predomina il nero degli scarni allestimenti, ma anche dei tendaggi e delle sedie. Luogo di interessanti sperimentazioni e avanguardie, il piccolo teatro di periferia attira un pubblico eterogeneo per età, vagamente alternativo. Più di altre volte, pare la caverna di Platone, l’antro oscuro dei miti e delle leggende, l’antica mera dell’aldilà. In attesa di un’illuminazione che abbiamo da subito la sensazione non arriverà.
Lo spettacolo prende spunto da un incredibile fatto di cronaca accaduto una decina di anni fa negli Stati Uniti. Era il 28 febbraio 2013 e a Tampa, in Florida, si aprì improvvisamente una voragine profonda trenta metri sotto una villetta. Un uomo che riposava nella sua camera da letto scomparve, inghiottito nelle viscere della terra. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Inghiottiti da una voragine che ti si apre so o i piedi senza lasciare scampo: ecco l’immagine potente della morte che ispira questa “Rapsodia per anime in transito”, performance teatrale in un sabato sera vicentino.
La morte come pauroso dissolvimento, oblio assoluto, viaggio senza ritorno. In fondo, non utilizziamo anche noi l’espressione “è scomparso” per esprimere il mistero, il lato incognito e inspiegabile della morte? Prevalgono sul palco disperazione e paura. Davanti all’evidenza del nostro essere soltanto un misero pugno di polvere, si tenta di resistere opponendo all’evidenza del dissolvimento la forza vitale dell’eros e del dionisiaco.
Mentre tutto va comunque in pezzi, entra in scena una fi gura barbuta. Spinge un bacile colmo di cenere e su questo pianta una rudimentale croce. “Prendo su di me il peso del tuo dolore”, ripetono quasi ossessive le anime intorno, dando voce al nuovo arrivato. Anche questo Cristo, piegato, morto, ma non risorto, resta prigioniero degli inferi, quasi nuovo Sisifo costretto a spingere in eterno non un masso, ma le croci dell’umanità. E si rivolta anch’egli contro un Dio perfino ai suoi occhi troppo paziente davanti al male, al dolore, alla sofferenza del mondo. Alla fine non resta altro che ridere, o almeno sorridere, accettando l’idea che scomparire possa essere meraviglioso o almeno liberante. Lasciare la scena per un poco occupata sul palco della vita, non più preoccupati di difendere alcunché.
Interessante questa umanità postmoderna che si inter roga sul transito, sulla morte, su ciò che resta, sull’aldilà. Ricorre a immagini e miti antichi. Ha un vago sentore del potere salvifico della croce, ma fatica ad aprirsi alla luce di Cristo. Resta paradossalmente incatenata nell’antro oscuro del suo positivismo scientifico che nulla può da vanti alla morte; del suo edonismo e delle sue passioni tristi; dei determinismi ereditari di certe psicologie, di danze sciamaniche e meditazioni ayurvediche vendute a caro prezzo. La verità contro cui andiamo inevitabilmente a sbattere è che l’uomo non si salva da solo. Nessuno si salva da solo. Eliminato Dio, l’uomo resta prigioniero di sé stesso e della paura della morte, voragine senza fi ne in cui, lo sa bene, non è affatto dolce arrendersi e vedersi naufragare. Ma Cristo ci ha liberati, ci ha liberati dal potere delle tenebre per introdurci nel Regno del suo Figlio, non regno di ombre e di paura, ma di luce e di amore, come dice Paolo ai Colossesi e agli stolti Galati, ricaduti nel giogo della schiavitù o in fantasiose teorie di angeli e di demoni. Come noi che, pensando forse di liberarci da una religiosità irrazionale e oppressiva, siamo tornati nel regno delle ombre. Quel pizzico di cenere che abbiamo mercoledì ricevuto sul capo non getta il cristiano nella disperazione, ma apre al contrario alla speranza. Perché siamo sì polvere, ma amata, plasmata e custodita da Dio. Polvere vivificata dal lo Spirito e capace dunque di andare oltre la morte. Ecco la consapevolezza che porta a vivere con gioia e umiltà, virtù che il mondo difficilmente oggi pare trovare.
Alessio Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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