Cristina Baraldo è l’autrice dell’icona del Concilio apostolico di Gerusalemme che in questa Pasqua il vescovo Beniamino ha donato alla chiesa che è in Vicenza. La Baraldo, classe 1963, si dedica da circa trent’anni all’iconografia e da una decina d’anni, nell’ambito di un accordo con la Diocesi e con il Direttore della Casa di Esercizi Spirituali, vive nell’appartamento all’interno del parco di Villa San Carlo a Costabissara. L’abbiamo incontrata per farci raccontare com’è nata l’icona commissionatale da mons. Pizziol.
L’icona, in senso ampio è un’immagine. «Di specifico essa – ci spiega Baraldo – ha un proprio stile, nato fin dagli albori dell’arte sacra, che annuncia la Pasqua. Rispetto al panorama dell’arte sacra più ampio che permette un contatto con il trascendente, l’icona – precisa – ha di specifico che si mette dalla parte di Dio: è lo sguardo che Dio ha sulla realtà. In tal senso quest’arte viene definita “finestra sul cielo e dal cielo”. È questa visione altra che ci ricorda l’icona. Un crocifisso di arte sacra, per esempio, di solito dà la visione che l’artista ha dell’evento che rappresenta, l’icona invece veicola quest’altra dimensione: cioè come la rivelazione vede quell’evento. Ed è ovviamente diverso. Questa immagine accompagna il nostro cammino, perché riusciamo, nelle situazioni della nostra vita, a passare da una visione umana alla visione che Dio ha sulla realtà. Questi, peraltro, sono temi aperti, sui quali c’è confronto tra iconografi».
Com’è nata in lei questa passione?
«È nata pregandoci sopra. In una cappella in un monastero vicino a Roma c’erano due bellissime icone. Lì mi sono resa conto che di fronte ad esse pregavo molto volentieri. L’aver a che fare con una icona è, dunque, prima di tutto una esperienza spirituale, nel senso che l’icona parla e ti fa fare un’esperienza. Credo sia stata questa una delle ragioni per cui il Vescovo Beniamino ha chiesto una icona del Sinodo, perché non fosse solo un pensare al sinodo dal punto di vista razionale, ma fosse anche il fare un’esperienza».
Com’è nata l’icona sul Concilio apostolico di Gerusalemme?
«È nata una decina di mesi fa, dal desiderio del Vescovo, con il quale ci conosciamo da tempo, di accompagnare il cammino sinodale. Lui aveva ben chiaro il soggetto dell’icona. La base sulla quale abbiamo lavorato è stata la lettera che aveva scritto alla Diocesi lo scorso Avvento. Gli elementi da tenere presenti sono stati questa idea del cammino, l’idea del confronto in situazioni anche difficili, la compresenza di Pietro e di Giacomo che danno l’immagine di una Chiesa che ha una presenza di autorità ma anche collegiale. Poi c’è l’epilogo positivo di questa lettera che viene portata alle comunità e che fa vedere una possibilità che si è aperta nella difficoltà».
Rispetto allo stile realizzativo, c’è stata qualche scelta particolare?
«L’icona si può scrivere in tantissimi stili. La mia scelta è stata quella di seguire la scuola degli iconografi rumeni, con questo stile essenziale, sobrio e molto espressivo. Diciamo che se c’è una novità è quella dell’uso di colori pieni di luce. Rispetto all’evento raccontato va detto che non c’è una tradizione preesistente. C’è solo una icona scritta a Gerusalemme».
Colpisce poi lo sviluppo orizzontale di questa icona…
«Le icone possono essere o più narrative, come questa voluta dal Vescovo, o più teologiche. In questo caso si trattava di raccontare un percorso e per questo si è anche studiato la tavola che desse questo significato e per tale motivo c’è stato uno sviluppo orizzontale, quando le icone spesso sono, invece, soprattutto verticali. La posizione dell’icona dà l’idea del percorso. L’importante era che si capisse che il sinodo è un evento che chiede un percorso. Questo elemento lo ha dato anche la forma della tavola».
Un elemento particolare nell’icona è la presenza delle donne, voluta dal Vescovo…
«Infatti, nella tradizione iconografica di queste immagini non c’è la presenza delle donne. Il Vescovo, però, le ha volute e io condivido pienamente tale scelta, perché è plausibile che nella comunità di Gerusalemme e nella comunità di Antiochia fossero attivamente presenti».
Molto importanti sono i colori. Ci introduce ai più significativi?
«Il violetta attribuito a Paolo, è il segno della carità. Il giallo è ambivalente ed è attribuito a Pietro. Dice sia la vita spirituale – è il colore della luce -, ma anche dice il tradimento. In Pietro ci dice, in questo modo, che il nostro procedere nel seguire Dio è sempre un modo fragile, umano. Il verde è il simbolo della vita. La porta scura, invece, ha sempre a che fare con la tomba e dunque c’è sempre un evento pasquale, qualcosa che evoca la morte e la vita».
Quali sono i significati che si possono dare a questa immagine?
«Il fatto che questa icona abbia a riferimento un preciso testo biblico (Atti, capitolo 15) la inquadra in un contesto preciso. Resta però il fatto che l’icona ha una sua vita autonoma che si incrocia con la vita delle persone che si trovano di fronte. L’icona, da questo punto di vista, può dire molteplici cose anche al di là e oltre a quello che ha pensato il committente e chi l’ha realizzata».