Un libro che a leggerlo viene voglia di chiuderlo e uscire di casa. Non si tratta di una bocciatura, anzi, per Il bambino della promessa di Cristina Bellemo è un complimento. Freschissimo di pubblicazione per le edizioni Il Messaggero di Padova, presentato lo scorso 29 novembre al monastero di Santa Croce di Campese, il libro è un viaggio nella storia di Gesù attraverso la poesia e l’arte pittorica. I versi di Cristina Bellemo, celebre per le sue opere dedicate all’infanzia che le sono valse il Premio Andersen come migliore scrittrice italiana nel 2021, accostano tra loro — come fanno l’ago e il filo con una trapunta in patchwork — gli affreschi del XIV secolo di “Padova urbs picta” conservati nel complesso monumentale della Basilica del Santo, nel Battistero della Cattedrale e nella Cappella degli Scrovegni.
«Ho potuto attingere per questo lavoro a un corpus di opere meravigliose, che allargano le possibilità del libro. Credo che leggendolo venga voglia di mettere il libro in borsa e andare a ritrovare queste immagini straordinarie dal vero. Va dato merito all’editore di aver fatto un lavoro straordinario: la stampa è di alta qualità, i colori bellissimi e rispettati dalla tipografia, anche dove sono stati scelti dei dettagli e non l’immagine piena».
Cristina, come è nato questo libro?

«L’idea originaria che mi era stata proposta era di realizzare un libro illustrato per bambini e bambine in occasione del Giubileo. Poi è venuto fuori questo testo. D’altronde, quando parti con la scrittura devi vedere cosa affiora un po’ alla volta. Il testo non era adatto ai bambini, ma alla redazione è comunque piaciuto tantissimo. Ho costruito il testo poetico seguendo alcuni momenti della vita di Gesù che ho scelto io stessa. Lo immagino un testo “intero”, una sorta di rotolo che si srotola e racconta. Le immagini si intrecciano con il testo più per metafora che per connessione didascalica».
Che significato assume, per te, la parola “promessa”, contenuta nel titolo?
«“Promessa” è una delle mie parole preferite. Indica la fiducia così piena e ferma che qualcosa accada che puoi metterlo in piazza come se fosse già accaduto. È questa secondo me la voce dei poeti. Sento il testo del libro molto laico, anche se sembra un paradosso. Mette al centro la vita, i legami, l’amicizia, la fiducia, il rispetto del sentiero dell’altro, lo stupore e questo sentimento della promessa che dovrebbe essere rispettata per ogni bambino e ogni bambina che vengono alla luce e che fanno nuovo il loro mondo».
Un testo anche “politico”, quindi.
«“Politico” in senso ampio, assolutamente sì: io credo che il venire al mondo di ogni bambino e di ogni bambina ci riguardi».
Che rapporto c’è, secondo lei, tra i bambini e la parola “futuro”?
«In quanto autrice per bambini sono molto protesa verso questa infanzia così poco ascoltata e poco vista. Guerra, cambiamento climatico, calo demografico… sembra che di futuro non ce ne sia. Ci sono un sacco di scenari spaventosi che si profilano all’orizzonte. A me però preme dire questo: quando parliamo di persone piccole, bambini e bambine, le definiamo sempre “generazioni future”. A me sembra una specie di “confinamento”, come se potessimo prescindere dal loro presente. Come se li confinassimo in un tempo un po’ “vago” per dire che il presente è nostro e che ce lo teniamo noi, e che siamo gli unici ad avere voce in capitolo anche sull’infanzia e la giovinezza. Se ci mettessimo più in ascolto e avessimo veramente un’intenzione autentica verso l’infanzia, ci renderemmo conto che sul serio stiamo tagliando via fette di futuro a colpi d’accetta».

«Il futuro e, aggiungerei, il presente: è in atto una colonizzazione nella quale bambini e giovani hanno pochissimo spazio e voce. Sono un po’, come ripeto spesso, “una minoranza senza paladini”. Come se tutti sbandierassero i bambini come un fantoccio politicamente strumentalizzabile, senza un interesse autentico a proteggerli e difendere il loro desiderio e le loro possibilità».
Abbiamo parlato di scenari spaventosi, aggiungiamo anche le notizie di atti violenti che bombardano anche i bambini. Qual è il ruolo della storia? Un “rifugio” o qualcosa di più?
«Il modo in cui i media oggi raccontano le cose è davvero brutale. Non tanto per cosa viene raccontato ma per il come: brutale, strumentale, poco umano. Penso però che le storie abbiano una capacità di mediazione straordinaria. Bambini e bambine, ragazzi e ragazze, la vita la incontrano comunque, anche nelle sue cose spaventose e brutali. Le storie ci permettono di sperimentare la forza di certi sentimenti, tra i quali la paura, però al riparo delle pagine e dotandoci di qualche strumento che ci tornerà prezioso quando saremo davanti alla vita vera. Calvino diceva che le fiabe sono il catalogo di tutti i destini che si danno all’umano. Dentro alle storie c’è spazio per tutto, non censurano nulla».
Eppure ogni tanto si discute sulla “edulcorazione” di libri per l’infanzia come quelli di Roald Dahl. Cosa ne pensa?
«Lo trovo fuorviante, perché nella vita nessuno si fa scrupolo di utilizzare parole più “soft”, basta vedere il linguaggio utilizzato dagli adulti sui social. Chi ci mette al riparo da quella violenza? Invece nelle storie puoi sperimentare che le tue emozioni hanno legittimità perché c’è sicuramente qualcuno che ha sentito e vissuto allo stesso modo. Puoi trovare delle chiavi di lettura delle tue emozioni, conoscerle, incontrarle, tenere le fila di quello che accade dentro di te. Le cose da cui proteggere i bambini non sono le storie di Roald Dahl, ma la violenza che mettono in campo gli adulti, fatta di disattenzione, autoritarismo, paternalismo nei confronti dell’infanzia che sentiamo da educare, indottrinare, come se non fosse capace di niente. Invece le storie sono uno strumento necessario e straordinario, anche quando raccontano storie spaventose. Sono sempre una mediazione che ci protegge. Perché sta dentro le pagine».
Andrea Frison
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