“Padre, ma lei ci crede davvero che dopo ci sarà qualcosa?” La domanda mi arriva come una doccia fredda al termine della celebrazione di un funerale. Mi chiedo che cosa diamine abbiamo appena fatto in chiesa. Del resto un’indagine di alcuni anni orsono aveva già messo in luce come, anche tra coloro che partecipano abitualmente alla Messa, la fede nel “dopo” fosse tutt’altro che scontata.
Oggi la Chiesa annuncia forse troppo poco la speranza nella vita eterna. Probabilmente si tratta di una comprensibile reazione alla predicazione di un tempo che – guardando soprattutto all’aldilà e minacciando castighi infernali ad ogni piè sospinto – finiva tante volte con il disprezzare l’aldiquà, giustificando così anche un certo disimpegno del cristiano riguardo alle cose di questo mondo.
Ma se non avessimo fiducia che ci sia un’eternità beata in cui vedremo Dio, in cui ritroveremo le persone amate e capiremo finalmente il mistero della nostra vita e del nostro tribolare, che senso avrebbe la nostra fede cristiana? In realtà il problema forse è proprio qui: che anche chi è cresciuto nel cattolicesimo spesso, dopo anni di catechismo e altre frequentazioni delle nostre parrocchie, molte volte afferma di credere soltanto che ci sia “qualcosa”, in una confusa forma di teismo in cui manca un chiaro riferimento e ancor di più una convinta adesione alla persona e alla parola di Gesù Cristo. Credere che ci sia “qualcosa” che va oltre la realtà materiale della vita è certo già un passo avanti, ma non significa certo ancora essere cristiani.
Nel Vangelo Gesù ha rassicurato i suoi discepoli dicendo chiaramente: “Vado a prepararvi un posto”; e al buon ladrone sulla croce ha detto: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Traccia di questa fede resta nel saluto estremo “addio”, che non significa “a mai più”, ma alla lettera “a Dio”, ci vedremo, ci ritroveremo di nuovo, un giorno in Dio. La fede nella vita eterna non è dunque frutto tanto di ragionamenti o speranze umane, ma della fiducia in Gesù e nelle sue promesse. E non si dà cristianesimo senza tale fiducia in Gesù Cristo e nel suo santo evangelo. Certo la vita eterna, cioè la vita di Dio in noi, inizia già su questa terra. Se mettiamo in pratica la parola d’amore di Gesù, intessiamo fili preziosi e luminosi e prepariamo così il vestito bello, per la festa di nozze, per l’incontro definitivo con Gesù Sposo, Maestro e Signore della nostra vita.
“L’inferno– scrisse Bernanos – non è fuoco, ma è gelo. L’inferno è non amare più” e, proprio come l’eternità beata, anch’esso può iniziare già su questa terra, quando si vive senza donare e ricevere amore.
C’è da dire che la nostra visione del “dopo” risente, anche inconsapevolmente, dell’immaginario dantesco più di quando sarebbe probabilmente opportuno. Il Paradiso rischia di apparire ai più come un luogo di una noia mortale, sponsorizzato sino a non molto tempo fa da una nota marca di caffè, necessario per restare svegli e continuare a cantare le lodi di Dio. Ma l’universo simbolico del cristianesimo antico è in realtà molto più ricco e stimolante.
A partire dalla parola stessa “Paradiso”, che nel suo etimo indica un giardino, un luogo ameno e rigoglioso, in cui ai beati è ridonato in pienezza quel rapporto di armonia e di pace che regnava nell’Eden originario. E del resto la stessa Resurrezione di Gesù avviene la mattina di Pasqua in un giardino, ad indicare così una nuova e radicale possibilità di vita, oltre la sofferenza, le separazioni e la morte.
Il Cielo sarà, potremmo dire, quel luogo in cui, pur non essendoci mai stati prima, ci sentiremo subito e finalmente a casa. Sarà la festa senza fine in cui la nostra gioia consisterà nel ritrovarci insieme, uniti in Cristo in un amore che non temerà più separazioni.
Alessio Graziani