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«Ecco cosa ho imparato in 33 anni di Africa»

4 Aprile 2018
in Interviste, In primo piano
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«Ecco cosa ho imparato in 33 anni di Africa»

Ha occhi gentili padre Giuseppe Dovigo, superiore dei Missionari Saveriani di Vicenza. Classe 1938, originario di Campiglia dei Berici e alle spalle trentatré anni trascorsi in Congo. Per l’Africa padre Giuseppe parte, per la prima volta, nel 1972 e vi rimane fino al 1993. Dieci anni dopo, nel 2003, decide che è il momento di ricominciare a prestare servizio nella missione congolese e passano altri quattordici anni. Ci accoglie nell’istituto della congregazione di viale Trento, dove è ritornato lo scorso luglio. Si racconta con voce pacata, sembra scegliere attentamente le parole con cui esprimersi. Ogni tanto, però, si lascia scappare qualche piccola frase in francese (lingua ufficiale del Repubblica Democratica del Congo, ndr) e qualche termine in kiswahili.

Padre Giuseppe, 33 anni sono tanti. Quali esperienze ha vissuto in Congo?

«Ho trascorso gli ultimi sette anni come cappellano dell’Istituto Superiore di Pedagogia di Bukavu, a sud del lago Kivu tra una sessantina di giovani universitari provenienti dai villaggi lontani dalla città. Il primo luogo in cui ho operato, però, è stato Kitutu, a 200 chilometri da Bukavu in una vasta zona di foresta. Qui ho vissuto dalla metà degli anni 70 all’inizio degli anni 80 insieme a tre confratelli e a cinque suore spagnole della Compagnia di Maria. Poi sono passato a Cimpunda, immenso quartiere della periferia del capoluogo del Sud Kivu. In questa comunità era forte l’impegno sociale nelle iniziative di sviluppo del territorio e nell’animazione dei diritti del cittadino. Uno dei più bei ricordi di questa esperienza, che ho condiviso con tre padri saveriani e quattro suore dorotee di Cemmo, è la celebrazione della liturgia in rito congolese. Un momento che richiedeva una lunga preparazione tra canti e danze della tradizione locale. Dopo una pausa di dieci anni in Italia, sono ritornato in Congo per aprire una nuova parrocchia nel nord del lago Kivu, a Goma, nel quartiere di Ndosho. Nel 2006 sono tornato di nuovo a sud del lago, nella parrocchia di Mater Dei di Bukavu con padre Franco Bordignon, fino al mio ultimo incarico. Quelli in Congo sono stati anni molto intensi che io amo distinguere in tre periodi principali».

Cioè?

«Il primo periodo è quello che definisco “per loro”, ovvero il mio operato e quello dei miei confratelli era improntato sulle azioni a favore del popolo congolese. Il desiderio di servizio era forte e cercavamo in tutti i modi di agire a beneficio della gente locale per migliorare le difficili condizioni di vita, ma eravamo noi missionari i “protagonisti”. Il secondo periodo, a partire dai primi anni 80, invece, è stato caratterizzato dal “con loro”. Il nostro impegno si fondeva con quello dei congolesi, disponibili a lavorare insieme a noi per costruire una comunità unita. L’ultimo periodo, infine, è quello del “didentro”, durante il quale siamo diventati veramente parte della realtà locale. Eravamo una sorta di collaboratori della Chiesa del posto, ormai ben strutturata, e dei suoi preti. Con il passare degli anni, quindi, le relazioni si sono trasformate, si sono perfezionate».

Che cosa le ha insegnato l’Africa?

«Mi ha insegnato ad accettare la diversità, ad accettare il mondo che si incontra, ascoltando sempre le persone che troviamo sul nostro cammino. Quando sono arrivato in Africa mi sono “spogliato” di tutte le aspettative che avevo. Non vuol dire dimenticarsi delle proprie origini o cambiare il proprio modo di essere, ma assorbire tutto ciò che ci circonda in un determinato momento. Ho imparato a conoscere e a comprendere culture, usanze, tradizioni diverse da quelle europee. All’inizio non è semplice, ma è una sorta di atto di fede verso Dio. Verso i doni che il Signore ci offre. Il confronto con i popoli africani mi ha dato la possibilità di riscoprire alcune cose che la nostra società ha perduto, dalla semplicità del quotidiano all’accoglienza del prossimo, dalla ricchezza delle relazioni all’importanza degli antenati, dal senso del sacro fino alla fede in Dio».

Il Congo è un Paese che da sempre vive una situazione socio-politica molto complessa…

«Il Congo ha avuto una storia travagliata. Dopo un duro periodo coloniale è precipitato in una lunga dittatura che l’ha impoverito e umiliato. Una guerra terribile negli anni 90 ha provocato milioni di vittime. Gli interessi delle potenze internazionali l’hanno messo in ginocchio e tuttora continuano a farlo. Io, però, sono convinto che questo Paese riuscirà a risollevarsi. Si sta muovendo qualcosa, basta pensare a quanto stanno facendo centinaia di giovani in questo periodo per ottenere le dimissioni del presidente Kabila. Un’azione che è partita dal mondo del laicato cattolico. Purtroppo la situazione è tesissima e alcuni di loro hanno pagato con la vita, ma sono convinto che le cose cambieranno. Quando sono tornato in Congo, nel 2003, mi sono reso subito conto che l’aria era diversa rispetto a dieci anni prima. I congolesi manifestavano il bisogno di una democrazia giusta, iniziavano ad alzare la testa, a chiedere più libertà, a desiderare un Paese più sviluppato. Si percepiva una maggiore consapevolezza da parte del popolo. Oggi, seppur nelle difficoltà, i congolesi sono ancora in piedi. Hanno bisogno di determinare – senza influenze esterne – la propria identità come individui e come comunità».

Sabato scorso si è celebrata la giornata in memoria dei missionari martiri. Pochi anni fa anche la vostra congregazione ha subito una terribile perdita…

«Ho vissuto tragici momenti nel settembre del 2014, quando sono state uccise tre suore saveriane nella missione di Kamenge, in Burundi. Conoscevo personalmente Bernardetta Boggian, Olga Raschietti e Lucia Pulici. Erano mie amiche. Ho partecipato alla loro sepoltura, è stata una grande sofferenza e una dura prova. A poco a poco, dopo il dolore per la loro morte crudele e la paura per una situazione di violenza, si è fatta strada in me l’ammirazione. Loro hanno vissuto il viaggio di vita cristiana al seguito di Gesù fino in fondo e nella compassione».

Qualche bel ricordo, invece, dei suoi anni congolesi?

«Ricordo che durante il mio primo anno in Congo non riuscivo a pronunciare la parola risurrezione (ufufuko) nella lingua locale e che questa mia difficoltà ha provocato una risata generale nell’assemblea dei 500 alunni che assistevano alla Messa. Nell’ultimo periodo, invece, sono riuscito a realizzare un piccolo sogno. Ho organizzato un corso, in dodici pomeriggi, sulla dottrina sociale della Chiesa seguendo il compendio Docat, voluto da Papa Francesco. Sono stati invitati alcuni relatori, tra cui la teologa saveriana Teresina Caffi, e per gli studenti dell’Istituto superiore di Pedagogia è stato un momento molto importante di discussione e dialogo sull’importanza dell’impegno sociale per i cristiani».

Anche se sono passati pochi mesi dal suo ritorno a Vicenza, le manca già l’Africa?

«Il giorno che sono partito per l’Italia ho ricevuto grandi manifestazioni d’affetto da parte di tantissime persone. In molti mi hanno chiesto di rimanere, anche coloro che non frequentavano la chiesa abitualmente. Se ci penso mi commuovo anche adesso. In questo momento il mio posto è a Vicenza, ma non escludo di tornare in Congo in futuro se il Signore lo vorrà. Durante gli anni in Seminario ho capito che io devo andare dove c’è più bisogno».

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