Sogni, educazione, lavoro, cittadini e cristiani responsabili e autentici. Ci vengono in mente queste parole pensando al Santo degli oratori, che la Chiesa celebra il 31 gennaio. Abbiamo chiesto a don Matteo Zorzanello, presidente dell’associazione Noi, di aiutarci a coglierne l’attualità.
San Giovanni Bosco nasce sognatore: da giovane ai sogni crede, anche quando sembra impossibile concretizzarne il messaggio. Cosa insegna questo oggi?
«Ciò che uccide i sogni non è la concretezza, ma la mancanza di speranza: convincersi che il futuro non riserverà niente di buono, che occorre solo godersi il momento presente senza pensare alle conseguenze delle proprie scelte o che l’eventuale possibile successo nella vita sia una sorta di terno al lotto da giocare al Talent di turno, alla vincita alla lotteria o lo sconosciuto parente che ti lascia in eredità una fortuna. Giovanni Bosco, di fronte alle sfide educative, sociali ed ecclesiali del suo tempo, non ha avuto paura di sognare un mondo diverso e di provare a realizzarlo a partire da ciò che era possibile, per lui, in quel momento. Oggi abbiamo bisogno di giovani sognatori».
Formare “onesti cittadini” era una delle missioni del Santo torinese. A che cosa sarebbe attento nel nostro tempo per raggiungere quest’obiettivo?
«Onesti cittadini significa formare uomini e donne che domani sapranno prendersi le loro responsabilità, rispettando le regole o chiedendo la loro riforma a partire da una visione della città e della Chiesa che siano “per tutti”. Oggi don Bosco certamente ci aiuterebbe a rispettare le regole della vita civile e fiscale, perché solo dopo aver fatto la propria parte è possibile chiedere all’autorità di riformarsi e migliorare. Avrebbe poi a cuore l’istruzione e il lavoro per i giovani, un tema non rimandabile. Compresa una previdenza sociale attenta al futuro della società e non semplicemente ai “diritti acquisiti”. Giovanni Bosco è stato il primo sindacalista italiano, capace di chiedere ai datori di lavoro un migliore trattamento per i giovani apprendisti, perché così potessero migliorare nelle loro condizioni di vita e in un impegno al lavoro. Avrebbe ancora molto da dire!»
«Don Bosco nel suo oratorio ha saputo mettere assieme le varie dimensioni della vita delle persone: la formazione spirituale unita a quella culturale, relazionale e propedeutica al lavoro»
E formare “buoni cristiani”: come annunciare, o ri-annunciare, il Vangelo nell’oratorio di oggi?
«Don Bosco nel suo oratorio ha saputo mettere assieme le varie dimensioni della vita delle persone: la formazione spirituale unita a quella culturale, relazionale e propedeutica al lavoro. Formare buoni cristiani significa ricordare che seguire e incontrare il Signore è una cosa che riguarda la preghiera, lo studio e la conoscenza, il nostro modo di relazionarci e di lavorare. Spesso ci incontriamo con giovani e adulti che rifiutano una fede percepita come disincarnata e “teorica”. Altri pensano che credere sia fare e dire determinate cose, che non c’entrano con il pagare o meno le tasse, con il rispetto dell’altro, con certi modi di presentarsi e vivere la dimensione dei social e delle proprie idee politiche. Entrambi rischiano di perdere di vista il cuore di ciò che significa credere. In oratorio si dovrebbe poter trovare preti, educatori, giovani e adulti che sorridono, che si incontrano e si perdonano, che si mettono in gioco e certamente, che non hanno nemmeno paura di pregare».
Stava tra i giovani, ma era ben chiaro il suo essere educatore. Forse questa “a-simmetria” oggi è venuta un po’ meno?
«Guccini, qualche anno fa, cantava che “ci vuole pazienza, ci vuole costanza a invecchiare senza maturità”. Oggi nessuno vuole essere davvero adulto, si tende a una infinita giovinezza. Dal punto di vista fisico, ma soprattutto per quanto riguarda il modo di vivere e intendere la propria esistenza. I bambini, ragazzi e giovani hanno bisogno di adulti con cui confrontarsi e, perché no?, scontrarsi. La prima dote dell’educatore è quella di insegnare ad accettare le varie fasi della propria vita: solo così ci si educa davvero a tirare fuori il meglio di sé in ogni momento del nostro cammino».
Il metodo di don Bosco fa leva sull’allegria. Anche papa Francesco ha riflettuto sulla provocazione “Vietato lamentarsi”. Perché, ieri come oggi, insistere sulla gioia?
«Quando nell’Evangelii gaudium papa Francesco dice che “ci sono troppi cristiani che sembrano vivere in una eterna Quaresima senza Pasqua”, dice il vero. Don Bosco caratterizzava con l’allegria il suo modo di stare assieme ai giovani, di accompagnare ed insegnare, senza aver paura poi di essere molto serio quando il momento lo richiedeva. Richiamando la prima domanda di questa chiacchierata mi viene da dire che solo chi sogna sa essere allegro: la gioia è la caratteristica di chi ha fede in un Dio che ha vinto la morte. Solamente chi è allegro sa rimboccarsi le maniche di fronte alle difficoltà da affrontare, sa contagiare chi gli è accanto».