È finalmente uscito nei giorni scorsi al cinema l’atteso Biancaneve, nuova versione cinematografi ca del celebre cartone animato Disney.
Sostanzialmente fedele alla versione del 1937 (già molto edulcorata rispetto alla crudezza della fiaba dei fratelli Grimm), il film in sala in questi giorni rispecchia le mutate sensibilità culturali e sociali, da una maggiore inclusione multietnica ad una più marcata sensibilità animalista. Nessun cuore di capriolo viene strappato e portato dal cacciatore alla regina cattiva. Ma ciò che più appare evidente è l’emancipazione della leggiadra fanciulla, che non solo sembra non aver più bisogno di un principe azzurro (sostituito da un giovane brigante dal cuore buono e un poco impacciato), ma che, soprattutto, non stira più per i sette nani.
Se novant’anni fa, Biancaneve entrando nella disordinatissima casetta nel bosco sentiva un insopprimibile bisogno di lavare i piatti, spazzare, spolverare e fare il bucato, nella speranza che così i suoi ancora sconosciuti abitanti, testuali parole, “la facessero restare” (un po’ mamma, un po’ colf insomma), nel 2025 la giovane principessa va dritta a riposare e il giorno dopo insegna ai sette nani a farsi da soli, con gioia e fi schiettando, le faccende di casa.
Il messaggio non è politicamente corretto. È solamente corretto e, purtroppo, ancora tutt’altro che scontato. Personalmente non amo molto il termine “patriarcato”, di comune utilizzo dopo l’efferato omicidio della povera Giulia Cecche in. Ogni volta penso a mons. Moraglia e a come debba sentirsi da quando si è accesa la “lotta al patriarcato”. Eppure dobbiamo riconoscere che una mentalità patriarcale dura a morire ed è ancora diffusa nelle nostre famiglie più di quanto a volte crediamo.
Quante donne devono sobbarcarsi quasi per intero da sole la gestione dei figli e della casa? A quante di esse tale impegno non è minimamente riconosciuto, ma considerato un atto dovuto da mariti, padri, suoceri? Quante donne non si vedono attribuita pari dignità nella coppia quando, all’atto pratico, è il momento di prendere decisioni che riguardano l’intera famiglia? Quante mogli e compagne sono tenute, economicamente, ancora in uno stato di minorità, estromettendole dalla proprietà della casa in cui vivono perché magari il mutuo lo paga il marito, senza tener conto che magari di tutte le spese correnti si fa carico lei, con il proprio stipendio? Quanti mariti preferiscono non intestare alla moglie alcun bene, alcun contratto o ancora oggi ritengono che l’atto sessuale sia un dovere nei propri confronti?
Accade, e molto più di quanto si possa pensare. Forse perché, tra le mura di casa, molti uomini replicano, senza neppure rendersene conto, i comportamenti che hanno visto nei propri padri. Comportamenti che poi sono la prima causa di tante separazioni, della paura di sposarsi o di quelle violenze, psicologiche prima che fisiche, che si consumano nelle case dei nostri paesi e delle nostre città.
Certo, sia ben chiaro, la “colpa” non è solo degli uomini. È tutto un sistema che chiede di essere
ripensato e rifondato. Molte coppie ci riescono, trovano un nuovo equilibrio, fondato sui reciproci diritti e doveri, ma soprattutto sul reciproco amore. San Paolo (che, come il Manifesto di Ventotene, va ben contestualizzato e soprattutto letto per intero!) dice che “la moglie deve essere sottomessa al marito”, ma anche che “il marito deve amare la moglie come Cristo ha amato la Chiesa”, cioè fino a morire in croce per lei. Quindi la strada sembrerebbe essere non tanto l’affermazione di una parte sull’altra, ma la reciproca dedizione in un amore che non fa più conti, in cui si vive e si muore per l’altro o per l’altra, ritrovando in questo la propria identità e la propria libertà.
Anche facendo le faccende di casa insieme o a turno o dandosi quel bacio che toglie il veleno e risveglia l’amore.
Alessio Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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