Il “renzismo” è finito. Sembra uno dei verdetti inappellabili usciti dalle urne del voto politico del 4 marzo. Era il 2013 quando il giovane ex sindaco fiorentino Matteo Renzi prendeva in mano le redini del Partito Democratico trionfando alle Primarie. L’anno seguente il Pd alle elezioni europee sfondo il tetto del 40 per cento dei voti. Allora il più giovane premier della storia repubblicana aveva il vento in poppa e sembrava destinato a lunghi percorsi. Sono passati solo cinque anni e la storia potrebbe (in politica il condizionale è sempre d’obbligo) essere già conclusa e archiviata.
Gli italiani sono così: cercano qualcuno a cui dare fiducia, qualcuno che gli risolva i tanti problemi e si affidano a lui. Ma poi se i risultati non sono secondo le aspettative (molteplici e assolutamente complicate da soddisfare) prevale la delusione e non ci pensano due volte a cambiare cavallo. Berlusconi si era illuso che per lui il tempo non lasciasse i segni e invece le urne ne hanno decretato l’inesorabile tramonto.
Su tutto questo ci sarà da ragionare e riflettere, intanto impressiona la velocità con cui il nostro Paese consuma leader politici, quasi ci fosse una sorte di dio Cronos che divora i propri figli.
A dieci anni dal primo Vaffa Day di Beppe Grillo, mentre il suo delfino Luigi Di Maio si appresta a giocare da assoluto protagonista la partita della diciottesima legislatura, sarà bene che anche i grillini non dimentichino questa lezione.
