In primo piano Intervista

Il vescovo Giuliano si racconta, a pochi giorni dall’ingresso a Vicenza

Mons. Giuliano Brugnotto, nuovo Vescovo di Vicenza (agenzia foto film Treviso convegno ministri straordinari a San Nicolò).
di Marta Randon

«Hai offerto qualcosa alla giornalista?» chiede mons. Giuliano Brugnotto al padre Elio, 89 anni. «No – risponde quest’ultimo -, ma ci sono dei gingerini». Mons. Brugnotto si alza, si dirige verso il frigorifero tira fuori quattro bibite, le stappa, prende i bicchieri e serve ai presenti. «Non capita tutti i giorni di essere servita da un Vescovo» scherza chi scrive. «Ho solo eseguito l’ordine di mio padre» risponde con un sorriso il nuovo Pastore. Comincia (e continua) con sincerità e una leggerezza profonda la chiacchierata con il nuovo Vescovo di Vicenza che domenica 11 dicembre viene ordinato nella Cattedrale di Vicenza e fa il suo ingresso ufficiale in Diocesi. Siamo a casa del signor Elio a San Giacomo di Musestrelle, al confine con Mignagola di Carbonera, paese in cui don Giuliano è nato 59 anni fa. Con noi c’è anche il cognato, Mario Basso, marito della sorella Roberta.

Vescovo manca poco. Come si sente?

«Sto bene. Sto sistemando le ultime cose. Rifletto e mi preparo spiritualmente».

Domenica chi c’è in Duomo che viene da Treviso?

«La mia famiglia. Una ventina di cantori del coro di Mignagola che animano l’assemblea, più altre persone della mia parrocchia d’origine; il personale della Curia di Treviso, i seminaristi, un gruppo di genitori e volontari, le cooperatici pastorali diocesane, i compagni di classe delle superiori, 90 preti di Treviso che concelebreranno. Un gruppetto di studenti e docenti della facoltà di diritto canonico di Venezia. E tanti altri. Circa 430 persone in tutto. Qualcuno magari sperava di essere invitato e ci rimarrà male, ma non ho fatto inviti specifici, ho solo ricordato in più occasioni la possibilità di poter partecipare».

Un grande evento.

«Una cerimonia abbastanza normale».

A proposito di sobrietà. È vero che non vuole lo stemma?

«Ho fatto la scelta di non averlo. Non c’è, a meno che qualcuno non lo inventi al posto mio. Il cancelliere ha predisposto la carta intestata senza lo stemma».

Perché non vuole lo stemma?

«Ho scoperto che non è obbligatorio. Dalla fine anni ’60 Paolo VI, con la revisione di tutte le insigne pontificali, ha disposto che si può fare, quindi non è obbligatorio».

E il primo vescovo di Vicenza a non averlo.

«Probabilmente».

No, no è così, abbiamo verificato.

«Ho visto che da voi in Episcopio c’è una stanza con tutti gli stemmi. Ho scoperto che lo stemma non è obbligatorio leggendo uno scritto di Carlo Maria Martini. Lui l’ha voluto perché gli serviva per comunicare il tratto del suo ministero episcopale. Quello che a me sembrava superato è proprio lo stemma in quanto tale, proviene da famiglie aristocratiche e nobiliari e si è trascinato anche ai  vescovi. Non penso sia così importante e necessario».

Qual è la cosa importante?

«Il rapporto del Vescovo con il presbiterio. È necessario camminare insieme. Io l’11 saluterò il presbiterio al quale sono appartenuto ed entrerò in quello di Vicenza. Pastore e preti sono legati: un Vescovo non può fare il Vescovo senza i sacerdoti e i preti non possono vivere senza la figura del Pastore. Dovrò scoprire ed imparare tanto».

Il motto c’è?

«Neanche il motto. Non sapevo che cosa scegliere, erano tante le espressioni che mi piacevano. Mi sembrava di essere come Santa Teresina che non riusciva a capire quale fosse il suo carisma, perché tutti quelli di San Paolo le piacevano. Poi alla fine ha scoperto il suo. Io scoprirò il mio strada facendo».

Il suo tratto episcopale, quindi?

«Non ho un programma, penso che il compito di un Vescovo sia di inserirsi nella storia di una Chiesa, che ha già un suo cammino. Prendo il testimone da mons. Beniamino che ha condotto la diocesi da un lato nel cammino sinodale con la chiesa italiana, dall’altro con la scelta delle Unità pastorali e dei ministeri laicali. Mi inserisco con una responsabilità specifica, camminando con i preti e con il popolo di Dio».

Come si conosce una diocesi? Come si possono evitare preconcetti, pregiudizi?

«Non credo sia possibile evitare in termini assoluti i pregiudizi e i preconcetti. La mia precomprensione è di avere percepito, ancora prima della nomina, che la diocesi di Vicenza è molto simile pastoralmente a quella di Treviso. Credo che l’atteggiamento giusto sia di mettermi in ascolto e cominciare a conoscere e condividere. Qualche giorno fa sono venuti a trovarmi a Treviso i seminaristi di Vicenza:è stato un bellissimo incontro. Ognuno ha condiviso la propria storia vocazionale. È stato un momento molto arricchente che mi ha permesso di entrare nella vita di questi giovani».

Impegni già fissati nei primi giorni dopo l’ordinazione?

«Lunedì 12 dicembre celebrerò la messa alle 7 al Santuario di Monte Berico, in mattinata e nel pomeriggio  incontrerò le autorità, martedì 13 celebrerò nella residenza per anziani Novello a San Rocco, dove mi fermerò a pranzo. È una scelta precisa. Un’attenzione specifica va data ai sacerdoti più avanti con l’età – in particolare quelli malati – e ai sacerdoti giovani. Due realtà più esposte alla fragilità».

La sua vocazione com’è arrivata?

«Già alla scuola elementare ero affascinato dal mio parroco, don Innocente Cagnin: mi piaceva come celebrava la messa e il suo rapporto con il Signore. Alle superiori ho avuto un momento di crisi, non sapevo se continuare, mi avevano bocciato, non ero così ben inserito. Mi sembrava che non fosse più la mia strada. Sono tornato a casa. I miei genitori pensavo mi forzassero a riprendere, invece mi lasciarono libero di decidere. Rientrai in seminario più convinto. Il vero passaggio però è avvenuto in seconda teologia. Stavo meditando su un testo centrale del Vangelo di Marco: “Gesù chiede: chi dite che io sia?” Mi sono chiesto: “Chi è davvero Gesù per me?”. La preghiera e il rapporto con il Signore risultavano un po’ formali. Mi chiedevo: “Ma davvero Gesù è esistito?”. Mi hanno segnato molto due esperienze: una settimana con i ragazzi disabili al mare con i quali sono stato costretto ad aprirmi. Mi hanno disarmato, mi sono sentito libero e ho capito l’importanza di donarsi agli altri. L’altra esperienza decisiva è stata in Terra Santa. Alle 5 di mattina sono andato al Santo Sepolcro. Lì ho riconosciuto la storicità di Gesù e che la Resurrezione non era un evento inventato, ma un fatto della storia». 

Hobby, passioni?

«Senza dubbio la musica, passione ereditata da mio padre. A casa ci sono sempre stati confronti accesi. Lui è della scuola ceciliana, più tradizionale. Io arrivavo con delle cose più giovani. Mi piace la musica classica, ma ho imparato ad apprezzare molto anche quella liturgica. Mi tengo aggiornato. Non mi dispiace anche la musica leggera: Battisti e Branduardi in particolare». 

Mi permetta una domanda personale: come ha segnato la sua vita la perdita del fratellino maggiore, Paolo?

«Avevo 5 anni, lui 6. È presente nella mia memoria affettiva. Fa parte delle vicende della vita. Perché questo sia avvenuto forse lo capirò nell’altro mondo. Non è facile dare un senso ai disegni divini dentro a percorsi storti e di sofferenza. Penso a mio padre. Perdere un figlio è contro natura. La domanda resta aperta».

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