La vigoria fisica dei soldati contrasta con il piegarsi del corpo del Salvatore.
Quella diagonale che taglia la scena dipinta da Rangoni è la vera protagonista dell’opera. Attorno alla croce, o meglio al legno della croce, pesante fardello che sta per essere collocato sulle spalle di Gesù, si muove tutta la composizione. Cristo, collocato al centro della scena e piegato a forza dai soldati che gli stanno alle spalle, ha il capo ruotato verso destra. Il volto è quasi del tutto nascosto ma il pittore mette in luce la corona che gli cinge il capo, striata di rosso che contrasta con la bruna e folta chioma. I soldati che si affannano ad alzare questo fardello, pesantissimo, gli sono addosso; le loro membra sono tese nello sforzo che stanno compiendo mettendo in luce le dinamiche e le movenze di corpi poderosi, tratti dalla lezione dei grandi artisti italiani del Rinascimento. Sullo sfondo si intravede, nuovamente, il colonnato che ambientava la prima stazione. Il luogo è il medesimo ma ora si è fatto silenzioso, la folla è sparita, rimane Cristo circondato dai soldati.
La linea retta delineata dalla traversa della croce, posta così diagonalmente rispetto alle figure, imprime movimento a un’immagine che altrimenti sembrerebbe statica, costruita su corpi come fermi, piegati in posizioni audaci ma prive di energia. È davvero la croce il ritmo vitale che dà luce e movimento al quadro. I Romani, per crocifiggere, andavano per le corte. Lo stipes (braccio verticale) era saldamente infisso nel terreno, mentre il patibulum, (era la sbarra con cui di notte si chiudeva la porta di casa) lo si imponeva sul collo del reo, che lo doveva portare fino al luogo della crocifissione. Eseguita la sentenza, i corpi venivano calati, mentre rimaneva lo stipes, sia come fatto pratico (era già pronto per una successiva condanna), sia come monito (quell’alto palo ben infisso e svettante su un’altura era simbolo dell’inflessibile legge romana). Quando Pilato consegnò ai soldati romani un uomo che si era dichiarato «re dei Giudei» e la cui reità era già stata sancita mediante la flagellazione, i soldati fecero crudelmente di Gesù un “mimo” di re: una corona di spine, una canna, un manto rosso, il tutto condito di schiaffi e di sputi. Quei soldati caricarono un legno pesante sulle spalle di un condannato già sfiancato dai flagelli, già tormentato da una corona di spine, già piegato dalla furia della gente che lo voleva morto. Non si preoccupano di caricare un ulteriore peso a chi è già sfiancato. C’è una dose di sadismo nelle persone che hanno qualche potere – nei confronti di chi è tormentato dalla vita, dalla malattia, dalla solitudine, dal bullismo, dall’incomprensione, da dipendenze che non riesce a togliersi – si preoccupano ulteriormente di caricare pesi insopportabili e umiliazioni indicibili.
La vigoria fisica, il corpo atletico e ben allenato dei due soldati, contrastano con il piegarsi del corpo del Salvatore. Quanta autostima avranno avuto di sé quei due energumeni in perfetta forma fisica, che non si preoccupano certo di un uomo che va verso lo sfacelo… Interessa l’immagine di se stessi, il corpo tonico, il giovanilismo nonostante gli anni, non certo un disgraziato che non avrà domani. Gesù portò la Croce vestito (Mc 15,20: «lo vestirono con i suoi indumenti e lo condussero alla crocifissione»). Dopo la crocifissione furono divise le sue vesti. I Romani in ciò si adattarono al senso di pudore dei Giudei, pur non percependo alcun valore in questo. Gesù caricato del suo fardello inizia il suo percorso in salita, con quel legno che lo schiaccia. Paolo, nella lettera ai Galati scrive: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno»

