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Documentare la guerra cercando parole di pace. Nello Scavo, inviato di Avvenire, a Vicenza

Il cronista di guerra sarà venerdì 24 ottobre alle 20:45 al Centro Onisto

22 Ottobre 2025
in Mondo, In primo piano
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Documentare la guerra cercando parole di pace. Nello Scavo, inviato di Avvenire, a Vicenza

«Il diritto internazionale con Trump è diventato diritto commerciale. Non è assolutamente un bene, implica che i diritti degli umani in quanto tali vengono meno». Nello Scavo ne parla appena tornato, nei giorni scorsi, dalla Palestina. L’inviato speciale del quotidiano cattolico Avvenire è sceso da un aereo per montare a breve su un altro. Stavolta diretto in Ucraina: «Da circa tre anni ormai passo da un conflitto all’altro. Rimango sul posto tre settimane, poi intervallo a casa per una decina di giorni. Nel 2024 ho preso 54 voli». Scavo, catanese classe 1972, è a Vicenza al Centro Onisto questo venerdì 24 ottobre alle 20.45 per l’incontro “Sguardi da Kiev a Gaza”, moderato da suor Naike Monique Borgo.

Come hai iniziato a fare giornalismo?

«Ho cominciato presto col giornalino della parrocchia, poi la rivista del movimento degli studenti dell’Azione Cattolica. Ero molto attivo. Io sono di Caltagirone, dopo il diploma ho iniziato a collaborare con il quotidiano La Sicilia. Ero solo un corrispondente, ma il periodo era molto particolare: il 1992, l’anno di Mani Pulite. Da noi l’inchiesta ebbe forti risvolti locali, ai quali si aggiunse una guerra di mafia che vide 60 persone ammazzate in tre mesi nel nostro territorio. Un conflitto legato al clan Santapaola, cruentissimo, in parte intrecciato alla vicenda dell’inchiesta sulle tangenti. Fu molto, diciamo così, formativo per me come giornalista. Ero pagato a pezzo all’epoca, diecimila lire ad articolo».

Le tariffe dei collaboratori da allora non sono cambiate.

«Lo so. Ed è un vero problema. Aggiungo sulla mia formazione che non distante da noi c’era la base di Sigonella e a Comiso, a Ragusa, una base americana che all’epoca aveva testate nucleari. Non era ufficiale, ma si sapeva che c’erano. Quegli aeroporti erano stati impiegati nella prima guerra del Golfo, nel 1991. Magari uno non se ne accorge, ma tutto questo fa “imprinting”. Ti influenza. Poi, negli anni ’90 ho fatto il freelance dai Balcani in guerra, iniziando a collaborare con Avvenire. Nel 1999 mi hanno chiamato a Roma, per lavorare sul Giubileo dei Giovani».

Quali misure prendi per garantire la tua sicurezza?

«Un cronista di guerra che va al fronte sa che qualsiasi rassicurazione che gli danno è carta straccia. Perché nessuno può sapere come spareranno i russi. Però, puoi creare dei percorsi in cui, diciamo, sai cosa vai a cercare e a cosa vai incontro. E come svignartela».

Una sorta di “piano B”?

«Sì, anche se purtroppo mi è capitato spesso di trovare le vie di fuga sbarrate. Il fronte cambia continuamente, soprattutto in Ucraina. Ci sono posti in cui mi sono trovato al mattino e c’erano gli ucraini che spingevano, mentre la sera c’erano i russi».

È un conflitto di cui non si vede la fine.

«Io credo che la guerra in Ucraina sia una chiave per capire le guerre contemporanee, ma anche il nostro futuro da un punto di vista geopolitico. In questa guerra abbiamo crimini cruenti e per certi versi antichi, accompagnarsi all’uso e alla sperimentazione di nuove tecnologie di altissimo livello. Ha fatto da apripista per altri conflitti: anche a Gaza i droni si sono usati moltissimo. E poi, c’è tutto quello su cui indaga la Corte penale internazionale, dalle fosse comuni ai rapimenti dei bambini. Io stesso ero presente quando è stata aperta una fossa comune in cui i russi avevano gettato i corpi di 478 civili uccisi. In un altro villaggio, un’altra fossa comune era stata minata: una persona che scavava per recuperare i corpi è saltata in aria, uccisa».

Quanti sono i bimbi rapiti e portati via dall’Ucraina?

«Gli ucraini stimano ventimila, noi pensiamo siano meno. Di sicuro i rapimenti sono avvenuti, perché l’hanno ammesso le stesse autorità russe restituendo 1250 minori, che sono potuti tornare a casa grazie agli sforzi diplomatici. Anche della diplomazia vaticana e del cardinale Matteo Maria Zuppi. I bimbi rapiti sono stati sparpagliati in un territorio enorme, anche in Cecenia e Mongolia: abbiamo fatto delle inchieste su questo, acquisite dalla Corte penale internazionale. Il problema è che quelli piccolissimi, che avevano un anno nel 2022, ora ne hanno cinque e non ricordano niente. Pensano di essere degli orfani, oppure che le persone russe che li hanno adottati siano i loro genitori. Abbiamo documentato un catalogo online, diffuso nelle zone occupate».

Di cosa si tratta?

«A Donetsk e Luhansk le stesse autorità russe hanno pubblicato un catalogo con foto di un centinaio di minori ucraini rapiti. Come fossero merce: con indicazioni come “socievole” o “non socievole”, se si vestono bene o meno… Ci sono foto di ragazzine di 16 anni con atteggiamenti già da donne».

A tuo avviso c’è spazio per una vera trattativa?

«Per l’Ucraina, dobbiamo toglierci tutti gli “occhiali” del luogo da cui proveniamo. Putin non ha mai chiesto ufficialmente di trattare. Vuole sempre creare le condizioni per cui siano gli altri a chiederglielo. Alzando il tiro. Due settimane fa in Europa era improvvisamente scoppiato il caso dei droni russi, ora non se ne parla più: nel frattempo gli Usa hanno minacciato di mandare armi più forti. E allora Putin fa sapere che “se qualcuno mi invita a trattare, non dico di no”. Io penso che stia alimentando la crisi della Nato perché vuole una trattativa, ma su invito altrui. Inoltre, la trattativa si svolgerebbe in casa del più filo-russo d’Europa, l’ungherese Orban. Per Putin sarebbe un doppio risultato. Va a trattare e al contempo scardina il diritto internazionale».

In che senso?

«Putin ha anche il problema di dover superare il mandato della Corte Penale Internazionale. Per paradosso, pure in Paesi amici lui non ci può andare perché rischierebbe di essere arrestato. Ricordiamo che non è andato in Sudafrica, qualche tempo fa. Se va a trattare in Ungheria e questo non succede, si crea un precedente. Tra l’altro anche l’israeliano Netanyahu ha lo stesso problema».

Il presidente israeliano non era presente in Egitto per l’accordo di cessate il fuoco. Sono partecipi o no?

«In realtà Israele ha partecipato alla trattativa in modo indiretto, Netanyahu era stato invitato in Egitto a firmare e ci risulta volesse andare: lo hanno bloccato i ministri di estrema destra, avvertendo che sarebbe saltata la maggioranza. L’impressione è che sia in una situazione difficile. Netanyahu è a processo nel suo Paese e con ogni probabilità andrà in galera, le prove sono tutte contro di lui. Per saltare l’ultima udienza ha finto una polmonite. Gli americani sono rimasti delusi dall’attacco di Israele in Qatar, pare sia questo che ha spinto a far fermare la guerra. Ed è vero che Trump ha detto al presidente della Repubblica israeliano, Herzog, “dai la grazia a Netanyahu”, ma ha anche detto a questi che il centrista Lapid è un bravo ragazzo e va trattato bene. Come fosse un possibile successore. Penso che vogliano far passare l’inverno a Netanyahu, ma non abbiano più fiducia in lui».

Questa intesa per Gaza reggerà?

«Gli accordi funzionano se chi li fa fermare è più forte di entrambi. Se gli americani hanno deciso che deve resistere, resisterà. Anche se ci sono delle sparatorie e scontri, del resto sono stati uccisi altri palestinesi in questi giorni».

Perché gli altri Stati arabi dovrebbero voler inviare a Gaza propri soldati, mettendoli a rischio e creandosi problemi interni?

«Purtroppo invece io me li vedo a piantare lì la loro bandierina, ma per altri interessi. Non stiamo parlando di due milioni di palestinesi, ma di due milioni di miliardi di dollari di risorse stimate. Le acque di Gaza sono ricchissime di petrolio e gas. Israele, anche se tecnicamente non poteva farlo, ha già indetto delle gare per trivellare e in uno dei consorzi c’è anche l’Italia. Siamo del resto vicinissimi all’enorme giacimento scoperto dall’Eni a Cipro».

Quindi sono di nuovo interessi commerciali?

«Con Trump, il diritto internazionale è un diritto commerciale. Non è un bene, ma questa ora è la logica che prevale: chi ha le leve del sistema economico interviene con un negoziato quando tutti ci possono guadagnare. Il Qatar, Paese arabo, ora è diventato perno di tutti perché lo vogliono gli Usa. Ricordo che il procuratore generale americano, Pam Bondi, era lobbista del Qatar. Ora questo Stato arabo aprirà una sua base negli Usa, un fatto del tutto inedito. Quello a cui stiamo assistendo con Trump è un paradigma nuovo. Ha il vantaggio di fermare temporaneamente i conflitti, schiacciandone le ragioni con la prevalenza delle ragioni economiche. Il timore è che se per alcuni mesi il mondo può essere meno in guerra, le ragioni profonde degli scontri riemergeranno in futuro».

di Andrea Alba

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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