Preghiamo il Padre nostro da due millenni. Spesso lo facciamo insieme, affermando a voce alta che Dio è ‘nostro’ padre e riconoscendo implicitamente che siamo tutti fratelli. Eppure qualcosa lungo i secoli deve esserci sfuggito se, al solo annuncio del titolo dell’enciclica ‘Fratelli tutti’, si sono moltiplicati i distinguo e le precisazioni, di stampo diverso ma comunque dal tono piuttosto aspro.
Da un lato, la componente ecclesiale più vicina al fronte tradizionalista non ha mancato di sottolineare come solo i cristiani siano tutti fratelli perché sono gli unici che, in forza del Battesimo, possono chiamare Dio col nome di Padre. Gli altri sarebbero solo creature e la fraternità universale un’invenzione del pensiero ateo e modernista. Dall’altra parte, molte voci di donne e uomini si sono levate a chiedere una diversa formulazione del titolo, più inclusiva, che non dimenticasse la componente femminile del popolo di Dio.
Per alcuni quindi la fraternità evocata sarebbe troppo ampia, per altre e altri troppo ristretta.
Perché tanta fatica? Un primo motivo riposa forse nella sovrapposizione tra due aspetti di questa realtà, la sua dimensione concreta e la radice trascendente.
A livello concreto, la fraternità rimanda al contesto dei legami familiari (e della differenza sessuale) e ne implica quindi non solo la ricchezza ma anche la fatica, che così spesso segna le nostre relazioni. Questo riferimento all’esperienza ha il merito di liberarci dall’illusione romantica che sia sufficiente riconoscerci fratelli e sorelle per vivere nella pace e nel rispetto. Parlare di fraternità significa quindi affermare l’appartenenza degli esseri umani a una data comunità di destino, richiamando una sorta di vincolo originario, naturale ma appunto per questo non così facile da incarnare: esso evoca la coesione sociale, che noi invece sperimentiamo essere fragile. È questa l’accezione in cui la parola compare, per esempio, nel celebre motto della Rivoluzione francese “libertà, uguaglianza, fraternità” e non è un caso che sia l’elemento della triade a risultare storicamente il più debole.
La fraternità così come viene intesa da Francesco, invece, include e supera questa dimensione immanente, poiché si radica in Dio e nella sua azione creatrice. È questo un pensiero che percorre tutto il pontificato, fin dall’inizio: «nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere» (Lumen fidei 54).
Questa radice teologale dell’essere tutti fratelli e sorelle struttura l’enciclica. Due passaggi meritano un supplemento di attenzione: al n. 5 il papa cita il testo sottoscritto con l’Imam Al Tayyeb, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana, che in tal modo viene integrato nel magistero della Chiesa: scelta davvero incisiva, capace di dischiudere orizzonti nuovi per il dialogo interreligioso e non solo. Lo stesso testo torna verso la fine, al n. 285, in cui si afferma che la fratellanza è una dimensione che «abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali».
In sintesi, se Dio creatore è l’unico, e se il suo volto di Padre ci è stato rivelato in Cristo, la sua paternità è per ciò stesso universale e la fratellanza umana indiscutibile; l’enciclica vuole quindi promuovere il progressivo riconoscimento dell’uguale origine, dignità e mèta di ciascun uomo e donna che cammina sulla faccia della terra, fonte di reciproco rispetto. Il pensiero di Francesco però ci spinge ancora oltre, verso «una fraternità mistica, contemplativa» (Evangelii gaudium 92) che è dono di Grazia e che permette di riconoscere il volto di Cristo (Evangelii gaudium 91) in quello dei fratelli e sorelle tutti, da quelli che ci sono più vicini a quelli lontani, marginali, fastidiosi. La luce e la forza per perseguirla riposa nella relazione con il Dio di Gesù Cristo vissuta nello Spirito, che conduce oltre l’uguaglianza stessa, consentendo di accogliere e valorizzare tutti e ciascuno nelle proprie diversità.
Un’ultima parola sulla questione di genere. In tutte le ingiustizie, le dinamiche oppressive e i conflitti, le donne sono le prime vittime: dal gap salariale e lavorativo all’oppressione sistematica, sociale e culturale, dallo sfruttamento sessuale allo stupro come arma di guerra. Un testo magisteriale che fa appello all’uguaglianza e al rispetto e cerca strade concrete per un mondo più giusto rappresenta in se stesso un passo importante a favore dell’universo femminile. Una maggior attenzione al linguaggio avrebbe rappresentato un ulteriore elemento per la promozione di questo cammino di giustizia.