Il volto del prefetto della Giudea è segno della sua angoscia interiore. Il dipinto si ambienta davanti ad un classico colonnato dove si è assiepata la folla che attende la sorte di Gesù. La gente, sullo sfondo della tela, è agitata, alza le braccia e indica, partecipe di quel che sta avvenendo.
In primo piano, in netto contrasto con la dinamica vivace della cortina formata dalle persone, si stagliano imponenti tre figure. Al centro vi è Pilato, seduto su una semplice sedia azzurra con il gomito sinistro appoggiato ad un tavolino, la mano portata al viso e gli occhi fissi su Gesù. Il Figlio di Dio e Barabba sono posti uno di fronte all’altro ai lati della tela, le loro figure ne percorrono in altezza tutta la superficie. Cristo è a destra, le mani sono legate, la posa è sicura, lo sguardo rivolto a Pilato. Barabba, invece, è posto sulla sinistra con le mani portate dietro la schiena, tratteggiato mentre osserva Gesù. La scelta dell’artista, davvero rara, è stata quella di rappresentare il momento del dubbio di Pilato, la decisione sta per essere presa ma è ancora sospesa nell’espressione intensa del governatore romano.
Dal punto di vista compositivo l’opera è calibrata, vige nella tela un equilibrio perfetto dato dalle due monumentali figure di Gesù e Barabba che quasi contengono tutta la scena. La calma del primo piano lascia il posto al sommovimento dello sfondo. Figura strategica che mette in relazione i due diversi stati d’animo è il servitore con la brocca posto alle spalle di Pilato, non a caso ritratto dello stesso pittore. Pilato non trova in Gesù alcun motivo di condanna, così come non trova in sé la forza di opporsi alla condanna stessa. Il suo volto è segno della sua angoscia interiore: le rughe solcano la sua fronte, la sua bocca è semiaperta in una smorfia quasi di dolore, la sua mano sinistra sembra schiacciare le sue labbra perché non pronunzino qualcosa di sbagliato.
Il suo udito interiore resta comunque sordo alla parola di Gesù, incapace dicomprendere la sua testimonianza. Pilato non riesce ad interrogarsi nel profondo, non può cambiare gli atteggiamenti di una vita che sono quelli della diplomazia, dell’accomodare ogni cosa per riuscire sempre a governare a nome dell’imperatore romano. Pilato non è libero: è condizionato dall’esterno – quella folla urlante di sottofondo a malapena trattenuta da un soldato che la respinge indietro –, è condizionato dalla sua posizione politica, è condizionato dal dispaccio che dovrà inviare a Tiberio, è condizionato dalla sua carriera che non vuole compromessa. Ma quella verità ascoltata da Gesù, continua a risuonare nel suo intimo come un’eco che bussa e inquieta.
Quasi nascosta da Gesù appare la moglie di Pilato, che l’evangelista Matteo nomina (27,19). Colpisce questa fuggevole presenza della moglie di Pilato nelle ultime ore di Gesù: non dimentichiamo il suo intervenire, la sua audacia inaudita, che contravvenne la legge che proibiva a una donna di interferire nei sistemi di legge e di dare qualche consiglio circa la procedura legale. Da dove nacque questa audacia? È stato forse l’incontro con un volto pieno di dolore e di amore, un volto che l’ha interrogata, con il volto di Gesù, che senza che lei sapesse, ma che il suo cuore aveva percepito, era il volto del Salvatore? Colpisce poi il servo che porta il catino e la brocca d’acqua: distaccato, con nessun segno di partecipazione a questo dramma. È lì e fa il suo dovere. Dovrà lavare le mani al governatore – un segno che passerà i millenni per dire l’ignavia di non decidere e di sottrarsi alle responsabilità – farà il suo compito con ossequio e dedizione. È parte impassibile, noncurante della scena, ma ben delineato, per interrogarci profondamente. Quante volte all’interno dei tanti scenari di ingiustizia, di violenza e di oppressione, siamo parte indifferente, siamo apatici? Quante cose ingiuste non ci toccano! Siamo troppo preoccupati – come Pilato – della nostra posizione e di non essere turbati, per continuare con la stessa inerzia e noncuranza il tran-tran di sempre…


