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Home Interviste

«A scuola si è dentro all’arte della creazione»

19 Settembre 2019
in Interviste
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«A scuola si è dentro all’arte della creazione»

Mariapia Veladiano (ph. Sonia Gastaldi)

Mariapia Veladiano è appena rientrata da un viaggio a Bordeaux, in Francia, dove «ho accolto il distacco», racconta un pomeriggio in un bar del centro di Vicenza. Da una vita nel mondo della scuola, dove «non stacchi mai, lavori tutto il giorno, sabato compreso», a giornate libere da organizzare, da riempire dedicandosi alle sue passioni: la scrittura, i viaggi, la cura dei fiori. In una parola, alla pensione, che è arrivata «prima del tempo», il 31 agosto scorso.

Camicia bianca, occhiali, ballerine e braccialetto in tinta, l’ex preside rivela semplicità e sofisticatezza allo stesso tempo. Attenzione al dettaglio, forma e sostanza insieme, qualità che si ritrovano nelle pagine dei suoi romanzi. L’occasione della chiacchierata è un bilancio di 38 anni nella scuola – «sarebbero 39, ma per un anno ho lavorato come redattrice alla Voce dei Berici» – , alla quale la scrittrice ha da poco dedicato “Parole di scuola” (ed. Guanda 143 pagg.), riedizione di un volume scritto anni fa, con delle integrazioni. Alle spalle 30 anni come insegnante di italiano e storia, la maggior parte trascorsi all’istituto professionale “Remondini” di Bassano, il resto da preside a Rovereto (Tn) e a Vicenza. Centinaia di incontri con ragazzi, docenti, genitori perché «il dialogo è la chiave di tutto».

Mariapia, oggi quanto diversa si sente rispetto a quando ha cominciato 39 anni fa?

Molto. Allora si entrava a scuola non adeguatamente preparati pedagogicamente. Avevi il titolo anche senza laurea, non c’era il problema dell’esubero dei docenti di oggi. Ho fatto i miei errori: nella gestione della classe, nell’organizzazione del lavoro. Adesso si lavora in team, ci sono i dipartimenti. All’epoca servivano tanta creatività e buona volontà. Ho, tuttavia, avuto il privilegio di poter scegliere la scuola. Scelsi il professionale, scuola nella quale mi immaginavo felice.

Perché scelse proprio il professionale?

All’epoca il professionale era un vero laboratorio sperimentale di didattica. Le sperimentazioni passavano di lì. Bisognava inventarsi di tutto perché arrivavano ragazzi piuttosto fragili. Ricordo il progetto ’92 (dall’anno di avvio ndr), sperimentale e assistito, che ha rilanciato la capacità  delle scuole professionali di sanare il divario tra l’ingresso e l’uscita dei ragazzi. Fu un vero lavoro di riparazione dell’ignoranza. Abbiamo dato il diploma ad alunni che non avrebbero mai pensato di averlo. Lì ho sperimentato come la scuola può fare la differenza. La scelta di indebolire questo tipo di istituti fu sbagliatissima. Potenziare i tecnici e i licei, puntando sulla formazione professionale – gestita non dal ministero ma dalle regioni – ha creato una spaccatura sociale. Ha ricreato una situazione che eravamo riusciti a colmare. Il divario, oggi, non sempre viene recuperato.

Lavorare nelle scuole professionali che cosa le ha insegnato?

Ho avuto un ottimo preside, Rosario Drago, dirigente  illuminato per l’epoca. Ho imparato che la scuola è assolutamente per gli studenti, non per gli insegnanti che si accomodano. Ho imparato che ogni minuto deve essere pensato per le loro esigenze. Ho visto ragazzi completamente salvati dalla scuola. La scuola deve fare la differenza, è un concetto che non ho più dimenticato e ho cercato di portare come preside a  Rovereto e poi a Vicenza. 

Oggi la scuola riesce a fare la differenza?

Purtroppo no, in questo momento non sta più riuscendo in questa operazione.

Secondo lei, perché?

La scuola si è un po’ persa, ha dovuto seguire molte riforme, una dietro l’altra, che hanno creato una rincorsa all’adeguamento, senza mai veramente consolidarsi. Penso all’esame di Stato, continuamente modificato, anche dall’ultimo governo durato poco più di un anno. Mi chiedo perche! La scuola non deve stare ferma, deve aggiustare quello che non va, non rivedere tutto ogni volta. In un periodo di tensione sociale importante – crisi economica –, poi, si è affidato alla scuola un compito di tipo protettivo. Ai ragazzi oggi si dà di tutto: certificazioni, lingue, eccellenza. La scuola ha il compito di educare per far fronte alle difficoltà. Deve far maturare, cosa che non accade se  si continua a dare, dare, dare “cose” agli alunni.

Gli alunni negli anni come sono cambiati?

Tutti i ragazzi, sempre e da sempre, chiedono di essere visti nella loro originalità, sono molto grati quando viene instaurato un rapporto di tipo personale. Oggi sono più distratti dal resto del mondo, bisogna trovare una mediazione tra uno sguardo perennemente verso l’informale e il fatto che la scuola richiede metodo e attenzione. Molta responsabilità è del cellulare, elemento di forte distrazione, nel bene e nel male. Alla luce di questo le modalità di apprendimento devono cambiare.  I giovani d’oggi ereditano dai genitori una certa sfiducia nel futuro. Non è un bel vivere, sono spaventati. Penso che nel tempo siano cambiati molto di più i genitori che hanno paura e riversano sulla scuola una marea di compiti impropri. La scuola non è un sostituto affettivo, non è una assicurazione sulla vita. In generale sono sospettosi. Non credono nell’arte della “riparazione” con il dialogo.

La responsabilità è anche della scuola.

Certo, negli anni anche la scuola si è messa sulla difensiva, ha paura. Chissà perchè per i ruoli di dirigenza il titolo preferenziale è la laurea in legge! Si chiede il governo del contenzioso, ma il vero governo è il dialogo. La scuola è il ruolo delle relazioni che deve saper curare. Non deve cadere nella trappola conflittuale della società. 

Che cosa le mancherà di più?

«Proprio le relazioni. Da decine e decine di persone ogni giorno, alle mie relazioni personali. Insegnare è un privilegio, stare a scuola è bellissimo. Si è all’interno dell’arte della creazione, hai idea che puoi fare la differenza, che una tua parola può fare la differenza. È un lavoro bellissimo ed è per questo che comunque va avanti, nonostante la disorganizzazione e gli altri problemi.

A proposito di parole. Il suo nuovo libro ne dedica una serie alla scuola. Integrazione, armonia, equità,… qual è la sua preferita? 

Le mie “parole di scuola” preferite sono due: armonia ed equità. Armonia è un progetto che non lascia fuori nessuno, non è un suono che prevale, ma un concerto. È come un progetto, devi pensarci. Se lasci fuori qualcosa stona. L’equità è quello al quale la scuola pubblica deve tendere. Rimuovere gli ostacoli, dall’uguaglianza formale a quella effettiva. Ripeto, la scuola è dalla parte di chi ha bisogno che l’ignoranza venga riparata. 

Un episodio particolare che porta dentro.

Ricordo una ragazza che praticava un’attività sportiva molto intensa. Era una ciclista, una brava persona. Per aiutarla a prendere il diploma abbiamo creato un team sportivo in classe, una squadra ciclistica in cui prima tirava uno, poi l’altro. Fu coinvolta l’intera classe con alcuni docenti e fu un successo collettivo.

E adesso? Come organizzarà il suo futuro?

Mi dedicherò alla scrittura, nel 2020 dovrei finire il mio nuovo romanzo, una storia di fragilità. Prima scrivevo la domenica, di notte, in vacanza. Adesso posso dedicarmi completamente. Ho intenzione di rifugiarmi in una delle Case degli scrittori, credo in Francia o in Irlanda, un luogo protetto dove potermi dedicare alla parola.

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