Dobbiamo essere sinceri: il fatto che a Gaza la guerra possa essere finita grazie alla mediazione del presidente americano Donald Trump un poco ci rompe le scatole. Che il tycon non appaia esattamente come un mite costruttore di pace e che sia stato mosso più dalla ricerca della gloria personale e degli interessi economici degli Stati Uniti che non da un autentico sentimento di compassione e da un desiderio di giustizia per il popolo palestinese è opinione comune e lo testimonia in modo imabarazzante l’Arco di Trionfo in fase di progettazione. Del resto, con le debite proporzioni, è questo un peccato trasversale che ad un certo punto ci ha fatto dubitare persino delle motivazioni di alcuni attivisti della flotilla o di qualche leader sindacale di casa nostra.
Ma intanto nella Striscia il cessate il fuoco è una realtà, e questo va riconosciuto. Dopo due anni orribili di bombardamenti, attentati e fame che hanno causato la morte di oltre 70mila palestinesi (tra cui 18mila bambini), un milione e mezzo di sfollati e la distruzione di quasi l’80 % degli edifici, a Gaza si torna a respirare, a sperare, perfino a ballare e a cantare. L’esercito israeliano si sta ritirando, gli aiuti umanitari iniziano ad arrivare in misura finalmente adeguata, i prigionieri di ambo le parti ad essere rilasciati. L’immagine delle lunghe file di palestinesi che risalgono verso nord per tornare alle loro città, a ciò che resta delle loro case, a piangere i propri morti e a tentare di rimettere insieme i pezzi della propria vita e delle proprie famiglie non può non suscitare un sentimento di viva e profonda commozione. Quasi un ritorno dal sapore biblico, anche se qui la deportazione e l’esilio erano stati causati, e non subiti, dal popolo eletto e dalla furia vendicativa scatenata del suo attuale governo in una risposta del tutto sproporzionata (ma vi è poi mai una vendetta che possa dirsi proporzionata?) e disumana agli attentati terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023.
Anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa si è detto fiducioso e contento per l’aria nuova che finalmente si respira nella Striscia, pur consapevole che la strada verso la pace è ancora molto lunga e per molti versi in salita. L’intesa raggiuta tra Israele e Hamas grazie alla mediazione di Trump e all’apporto decisivo di Qatar, Egitto e Turchia, appare agli analisti internazionali – almeno in questa prima fase – più come un “cessate il fuoco” che come un vero e proprio conseguimento della pace, in una regione che in realtà è ciclicamente in guerra fin dal 1948, quando terminò il protettorato britannico della Palestina e subito risultò chiaro che Israele non avrebbe mai realmente acconsentito alla nascita di uno Stato palestinese, puntando al contrario ad una sempre maggiore occupazione di territori. Chissà se è per questo che circola oggi anche l’ipotesi di un possibile coinvolgimento di Tony Blair sul futuro governo dei territori palestinesi…
In ogni caso dobbiamo essere consapevoli che quella attuale è una pace fragile, perché rischia ancora una volta di essere costruita senza la giustizia, l’asserzione della verità storica e un necessario, profondo e condiviso processo di guarigione e riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Senza un cambio radicale di mentalità che rompa l’apartheid del popolo palestinese da un alto e un reale disarmo delle forze terroristiche dall’altro, è purtroppo facile immaginare che il conflitto rimarrà latente, continuerà a covare sotto le ceneri dell’odio e della distruzione per riesplodere poi alla prima occasione opportuna. È proprio in tale contesto che suonano allora urgenti e profetiche le parole del Vangelo richiamate da papa Leone nella veglia di preghiera per la pace tenutasi sabato scorso in piazza San Pietro: “Metti via la spada! Queste parole dette da Gesù a Pietro nell’orto degli ulivi, sono rivolte oggi ai potenti del mondo, a coloro che guidano le sorti dei popoli: abbiate l’audacia del disarmo! (…) La pace vera – ha continuato il Papa – è disarmata e disarmante. Non è deterrenza, ma fratellanza, non è ultimatum, ma dialogo. Non verrà come frutto di vittorie sul nemico, ma solo come risultato di semine di giustizia e di coraggioso perdono”. Se davvero vogliamo la pace, non prepariamo la guerra, ma la fraternità tra tutti i popoli.
Don Alessio Graziani
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