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Le piazze “bollenti” d’Europa

18 Dicembre 2018
in Mondo
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Le piazze “bollenti” d’Europa

Non è un nuovo Sessantotto: ne mancano vivacità, colori gioiosi, note musicali e volti giovanili. Ma s’intravvede, in Europa, un nuovo fiume carsico, che appare e scompare, fatto di manifestazioni di protesta, di gilet gialli, di bandiere al vento, di scontri con la polizia. Il tutto, ovviamente, accompagnato – in questa fase di dittatura del web – da gruppi e gruppuscoli che agiscono tra le quinte, a volte creando e sempre alimentando le stesse proteste tramite facebook, twitter e whattsapp.

In Italia le piazze sono ancora relativamente calme. Qualche corteo si è visto a Genova, dove da mesi la città aspetta risposte concrete al crollo del ponte Morandi, con quanto ne è seguito per la popolazione: case distrutte, aziende chiuse, posti di lavoro persi, traffico impazzito. Altre agitazioni di un certo rilievo si sono avute soprattutto tra la val di Susa e Torino: in strada NoTav e SìTav a confrontarsi fra ambizioni di modernità e legittime frenate pro-ambiente. Qua e là per la penisola si sono avuti eventi pro o contro i migranti, oppure alimentati dai partiti, con Lega e Pd a contendersi le piazze.

Parigi è invece la capitale delle attuali proteste nel vecchio continente. I gilet gialli sono diventati l’emblema della rivolta dal basso: contro l’establishment di oggi e di ieri, e con la richiesta di una maggiore giustizia sociale. All’inizio si puntava il dito contro il rincaro dei carburanti, deciso dal governo come mossa per la lotta al cambiamento climatico: ma le piazze, si sa, non hanno pazienza e non guardano al 2050, mentre la benzina più cara pesa oggi sulle tasche di chi ha meno. Il presidente Emmanuel Macron e il premier Edouard Philippe hanno dovuto fare un passo indietro, ammettendo la propria sordità alle giuste richieste – parole del presidente – e promettendo riforme e pioggia di soldi. Così il rapporto deficit/Pil sforerà il 3% e la Commissione Ue sarà costretta a fare le pulci ai conti francesi. Le misure “macroniane” passeranno tra mercoledì e venerdì al vaglio di governo e parlamento, mentre il movimento dei gilet si sta dividendo. Quando gli interessi portati in piazza sono parziali, e i metodi diversi (ci sono la frangia violenta e quella che vuole trattare con il governo) prima o poi ci si divide. Così il movimento perde forza d’urto, superato – per attenzione mediatica – dai recenti e dolorosi fatti di Strasburgo.

La violenza ha rifatto la sua comparsa anche a Bruxelles. Domenica scorsa varie organizzazioni politiche extra-parlamentari di destra e dell’estrema destra hanno picchettato il quartiere europeo, manifestando contro il Patto globale sull’immigrazione, promosso dall’Onu e firmato a Marrakesh, sottoscritto da numerosi Stati, compreso il governo belga del premier Charles Michel. Soliti scenari: teste incappucciate, scontri lievi con la polizia, fumogeni, danni alle auto in sosta, saracinesche chiuse per qualche ora. Nel frattempo i ministri fiamminghi si sono dimessi e Michel guida ora un governo di minoranza.

Londra potrebbe essere la città più calda per via del Brexit, dell’accordo per il recesso dall’Ue che ancora non è definito, per la debolezza dell’esecutivo di Theresa May. E per i timori che il divorzio dai 27 sta generando: isolamento economico, fuori dal mercato unico, difficoltà di movimento delle persone, turismo in panne, fuga delle multinazionali, indebolimento della City… Eppure non è così. L’aplomb britannico sta emergendo e la battaglia politica è rimasta finora tutta interna al palazzo. Certo, qualche tifoso del Brexit, e, al contrario, qualche sostenitore dell’Ue, si fanno vedere davanti a Westminster, con slogan e bandiere. Ma tutto entro canoni di rispetto reciproco e di dibattito democratico. Anche perché Londra negli ultimi tempi ha vissuto forti tensioni per il terrorismo e probabilmente ora ha solo voglia di stabilità e tranquillità. Che la premier May va promettendo ogni giorno.

Ma ci sono altre città in fermento. Atene fa i conti con un ordigno esploso davanti al portone della tv privata Skai, non lontano dalla capitale. La polizia indaga, mentre la politica punta il dito contro frange anarchiche o estremiste che, si teme, vorrebbero destabilizzare un Paese che solo ora, dopo 10 anni, a fatica e a prezzo di immani sacrifici, sta rialzando la testa per lasciarsi indietro la terribile crisi economica. Il ministro per l’ordine pubblico Olga Gerovasili ha parlato di “attacco alla democrazia”, mentre magistratura e forza dell’ordine seguono la pista del terrorismo.

A Budapest si inasprisce nel frattempo la protesta popolare contro la cosiddetta “legge schiavitù”, ovvero la riforma del lavoro voluta dal governo di Viktor Orbanla quale  fra l’altro prevede l’aumento degli straordinari annui dei dipendenti da 250 a 400 ore e consente di rinviarne il pagamento fino a tre anni. Un paradosso tutto ungherese: nel Paese anti-migranti, che alza i muri attorno a sé, manca manodopera. E il governo vorrebbe sostanzialmente far lavorare di più pagando meno o diluendo i pagamenti ai lavoratori. Ogni giorno scendono in piazza i manifestanti. Domenica nella capitale si sono contate circa 10mila persone che hanno marciato per otto chilometri per le vie della città. Si sono verificati scontri con la polizia quando il corteo è arrivato sotto la sede della tv di stato, dove alcuni parlamentari dell’opposizione, entrati per consegnare un comunicato stampa, sono stati allontanati con la forza davanti alle telecamere. Immagini che hanno fatto il giro del web. Le proteste per la legge sul lavoro si aggiungono a quelle – prese di mira anche dall’Ue – per la riforma giudiziaria, per il controllo dei mass media, per la riforma elettorale e per la stretta sulle ong e le università.

Altre piazze europee vedono i primi fermenti. Accade in Polonia, dove non tutti sono d’accordo con la linea intrapresa dal governo di Diritto e giustizia. Succede in Romania, dove un governo ritenuto inadeguato, e secondo molti corrotto, dovrebbe assumere le redini dell’Ue per i prossimi sei mesi. Succede in Bulgaria, contro il carovita. Mentre i Balcani restano una pentola a rischio ebollizione, con la Bosnia attraversata da flussi migratori che si arrestano, non di rado con metodi duri, a Bihac, al confine con la Croazia. Al momento (quasi) tutto tace in altri Paesi: Germania, Scandinavia, repubbliche baltiche, penisola iberica. Ma nell’anno che si apre, con le elezioni europee in vista, non si possono escludere nuovi protagonismi delle piazze: nella speranza che, in tal caso, i veri protagonisti siano la democrazia e la cittadinanza. Non la violenza.

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